GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 800 - 999)
[800]dire, talmente che se alcuno de’
nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da’ monti o dal
mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in
una nazione posta nel mezzo d’Europa si possa scrivere in modo, che l’aver
letto, si può dire, qualunque de’ libri italiani che ora vengono in luce, sia
lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla. Del resto il punto sta che
la novità ch’io dico (e parlo in particolare della straniera) si sappia
convenevolmente introdurre. Perchè tutte le lingue antiche e moderne sono
composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno avuto il tempo della loro
purità e naturalezza; e potrà riaverlo anche l’italiana, non ostante l’aggiunta
de’ molti nuovi e necessari elementi stranieri, purchè si sappia fare, e non si
trascuri, anzi si coltivi profondamente, e sempre più il proprio terreno.
Alla
p.785. Oltre di queste due sorte di novità ce ne sono altre simili delle quali
intendo pur di parlare. Cioè una voce italianissima e di buona lega può esser
nuova per questo [801]solo, che non si trova nel vocabolario trovandosi
ne’ testi; o non trovarsi nè in questi nè in quello, ma bensì ne’ buoni libri
di lingua non citati (che sono infiniti, massime de’ buoni tempi ed hanno in
diritto la stessissima autorità che i citati) o finalmente trovarsi solo nelle
scritture mediocri o pessime in lingua, ma pure aver tutte le condizioni
richieste per esser legittima. E di queste parole o frasi ce ne ha moltissime.
Massimamente poi se si trovino nelle scritture non buone de’ buoni tempi, dove
a ogni modo la natura e l’indole vera e prima della lingua italiana la
conosceva e la sentiva ciascun italiano molto meglio che oggidì, e l’Italia
aveva la mente e le orecchie molto meno inclinate e meno avvezze alle parole ai
modi al genio straniero delle lingue.
(16.
Marzo 1821.)
Alla
p.745. Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione una qualunque
letteratura abbia avuto in due diversi tempi (eccetto se il tempo e la nazione
è del tutto rinnuovata, come l’italiana rispetto alla latina) due scrittori
eccellenti e sommi in [802]uno stesso genere. Da che quel genere ne ha
avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere
possa avere diverse specie, gl’ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non
poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la
naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle
imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta,
sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei
propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de’
quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell’arringo, spronati
dalle lodi di quell’eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse
facile a conseguire, e misurando l’impresa non da se stessa e dalla sua
difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto
al buon successo. Un’altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già
avuto uno sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale,
senza che, è impossibile esser sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale,
v’è quella eterna difficoltà, che anche gl’ingegni sommi, vedendo una strada
già fatta, in un modo o in un altro s’imbattono in quella; o confondono il
genere con quella tale strada, quasi fosse l’unica a convenirgli, benchè mille
ve ne siano da poter fare, e forse migliori assai. La stessa Grecia in tanta
copia di scrittori e poeti d’ogni genere, [803]e di buoni secoli
letterati dopo Omero, e, quel ch’è forse più, in tanta distanza da lui, non
ebbe mai più nessun epico, se non dappoco, come Apollonio Rodio. E lo stesso
Omero (se è vero che l’Odissea è posteriore all’Iliade, come dice Longino) non
aggiunse niente alla sua fama pubblicando l’Odissea. Sebbene, chiunque si fosse
quest’Omero, io congetturo e credo che l’Iliade e l’Odissea non sieno di uno
stesso autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall’Argomento
di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere. La qual
congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle
antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due
poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio.
Taccio de’ latini e degl’infelici loro tentativi di Epopea dopo Virgilio, così
prestante ed eminente in essa fra loro, come Cicerone nell’eloquenza. Sebbene
il Tasso non si può veramente nel [804]suo genere dire perfetto, neppur
sommo come Omero (che sommo fu egli, ma non il suo poema, nè egli quivi),
contuttociò l’Italia dopo lui non ebbe poema epico degno di memoria, sebbene
molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa carriera. Anzi
quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema dell’Ariosto e
quello del Tasso, pure sembrò strano ch’egli si accingesse a quel travaglio
dopo l’Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di
paragonarla all’Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec. Dopo
Molière la Francia non ha avuto grandi comici, nè l’Italia dopo Goldoni. Tutto
questo, sebbene apparisca forse principalmente nella letteratura, tuttavia si
può applicare a molti altri rami del sapere, o di altri pregi umani. Si possono
però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e
qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza
e fama. La quale per cadere nel mio discorso, dev’essere assolutamente
prestante, sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o
successori.
[805]Alla p.762. Per poco che si osservi
facilmente si scuopre che tutte le lingue colte, da principio hanno avuto e
adoperato estesamente la facoltà dei composti, come poi tutte, cred’io,
(eccetto la greca che la conservò fino alla fine) l’hanno quale in maggiore
quale in minor parte perduta. Tutte però hanno conservato o tutti, o maggiore o
minor parte dei loro primi composti, divenuti bene spesso così familiari, che
han preso come apparenza e opinione di radici, e forse così hanno servito di
materia essi stessi a nuove composizioni. La lingua Spagnuola ha composti, e
derivati da’ composti (come pure le altre lingue, chè anche questi derivati
sono un bellissimo e fecondissimo genere di parole): ed alcuni bellissimi e
utilissimi e felicissimi altrettanto che arditi, come tamaño, demàs, e
da questo ademàs, demasìa, demasiado, demasiadamente, sinrazon, sinjusticia,
sinsabor, pordiosear cioè limosinare, e pordioseria mendicità, ec.
che sono di grande uso e servigio. Tutte le lingue colte hanno ancora avuto
delle particelle destinate espressamente alla composizione e che non si trovano
fuor de’ composti. Così la greca, così la latina, così la francese, la
spagnuola (des ec. ec.), l’inglese [806](mis ec. ec.) ec.
Ed è tanta la necessità de’ composti che senza questi nessuna lingua sarebbe
mai pervenuta a quello che si chiama o ricchezza, o coltura, o anche semplice
potenza di discorrere di molte cose, o di alcune cose particolarmente e
specificatamente. Perchè le radici converrebbe che fossero infinite per
esprimere e tutte le cose occorrenti, e tutte le piccole gradazioni, e
differenze e nuances e accidenti di una cosa, per ciascuna delle quali
gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice, altrimenti il discorso non
sarà mai nè espressivo nè proprio, e neanche chiaro, anzi per lo più equivoco,
improprio, dubbio, oscuro, generico, indeterminato. Così appunto avviene alla
lingua ebraica (la quale non par che si possa mettere fra le colte) perchè con
bastanti radici e derivati, è priva di composti: o quasi priva: non avendo che
fare i suoi suffissi ed affissi colla composizione, ma essendo come casi o
inflessioni o accidenti o affezioni (p‹Jh) de’ nomi e de’ verbi, o segnacasi ec. e non variando punto il
significato essenziale, nè la sostanza della parola; come presso noi batterlo,
uccidermi, dargli, andarvi, uscirne ec. che non si chiamano, nè sono
composti nel nostro senso. Dal che segue ch’ella ed è soggetta alle dette
difficoltà, e disordini; e resta poverissima; ed io dico che tale ci parrebbe
eziandio quando anche in quella lingua esistessero altri libri, oltre la
Bibbia, se però questi libri mancassero parimente de’ composti. Ci vorrebbero,
ho detto, infinite radici. Ora [807]una più che tanta moltitudine di
radici, è difficilissima per natura, giacchè un composto, subito s’intende, ma
perchè una radice, sia subito e comunissimamente intesa (com’è necessario), e
passi nell’uso universale, ci vuol ben altro. Perciò la invenzione delle radici
in qualunque società d’uomini parlanti, o primitiva o no, è sempre naturalmente
scarsa, e povera quella lingua che non può esprimersi senza radici, perch’ella
non si esprimerà mai se non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell’Ebraico)
avrà una quantità di significati. V. se vuoi, Soave, append. al Capo 1. Lib.3.
del Compendio di Locke, Venezia 37a ediz. 1794. t.2. p.12. fine-13.
e Scelta di opusc. interess. Milano 1775. volume 4. p.54. e questi pensieri
p.1070. capoverso ult. E se, volete vedere facilmente, perchè una lingua appena
è cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di esprimere molte
cose, e queste specificatamente e chiaramente e distintamente e le loro
differenze ec. perchè, dico, abbia subito avuto ricorso e trovati i composti,
osservate. Che sarebbe l’aritmetica se ogni numero si dovesse significare con
cifra diversa, e non colla diversa composizione di pochi elementi? Che sarebbe
la scrittura se ogni parola dovesse esprimersi colla sua cifra o figura
particolare, come dicono della scrittura Cinese? La stessa [808]facilità
e semplicità di metodo, e nel tempo stesso fecondità anzi infinità di risultati
e combinazioni, che deriva dall’uso degli elementi nella scrittura e nell’aritmetica,
anzi in tutte le operazioni della vita umana, anzi pure della natura (giacchè,
secondo i chimici tutto il mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono di
un certo tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così
composti e fatti anche nell’ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri
sulla semplicità del sistema dell’uomo); deriva anche dall’uso degli elementi
nella lingua. Al che si ponga mente per giudicarne quanto sia necessario anche
oggidì ritenere più che si possa, e nella nostra e in qualunque lingua, la
facoltà de’ nuovi composti, atteso l’immenso numero delle nuove cose bisognose
di denominazione (massime nella lingua nostra); numero che ogni giorno
necessariamente e naturalmente si accresce: e d’altra parte l’impossibilità
della troppa moltiplicità delle radici, sì al fatto, o all’invenzione, sì all’uso,
intelligenza, e diffusione, sì anche alle facoltà della memoria e dell’intelletto
umano, ed alla chiarezza delle idee che debbono risultare dalla parola,
chiarezza quasi incompatibile colle nuove radici (v. p.951.), e
compatibilissima coi nuovi composti; oltre alla mancanza di gusto che
deriva dalle nuove radici, le quali sono sempre termini, come ho
spiegato altrove: non così i composti derivati dalla propria lingua. Lo dico
senza dubitare. La lingua più ricca sarà sempre quella che avrà conservata [809]più
lungamente, e più largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella
che la conserverà maggiore, e maggiormente l’adoprerà. L’esempio della lingua
greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre e anche oggi
inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia sentenza, già sì
evidente in ragione. E d’altra parte la mia teoria serve a spiegare il secreto
e il fenomeno di una tal lingua sempre uguale alla copia qualunque delle cose.
Se dunque vogliamo che una lingua sia veramente onnipotente quanto alle parole,
conserviamole o rendiamole, e se è possibile, accresciamole la facoltà de’
nuovi composti e derivati, cioè l’uso degli elementi ch’essa ha, e il modo, la
facoltà di combinarli quanto più diversamente, e moltiplicemente si possa.
Questo, e non la moltiplicità degli elementi forma la vera e sostanziale
ricchezza copia e onnipotenza delle lingue (quanto alle parole) come la forma
di tutte le altre cose umane e naturali. Generalizziamo un [810]poco le
nostre idee, e facilmente ci persuaderemo di questo ch’io dico, e come, per
natura universale delle cose umane, la detta facoltà sia non solo la principale
e fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente della ricchezza copia e
potenza di qualunque lingua, e della proprietà, definitezza, e chiarezza dell’espressione:
dico quanto alle parole.
(18.
Marzo 1821.)
Alla
p.804. Bisogna osservare che quanto agli autori drammatici la cosa va
diversamente, sì perchè infinite e diversissime sono le circostanze che
decidono de’ successi del teatro, massime in certe nazioni, e secondo la
differenza di queste; sì massimamente perchè il teatro di qualunque nazione
benchè abbia già il suo sommo drammatico, vuol sempre novità, anzi non domanda
tanto la perfezione quanto la novità degli scritti; questa richiede sopra ogni
altra cosa, a questa fa bene spesso più plauso che ai capi d’opera dei sommi
autori già conosciuti. Così che ad un drammatico resta sempre [811]il
suo posto da guadagnarsi, la sua parte di lode da proccurarsi, il suo
eccitamento all’impresa, e il suo premio proposto al buon successo, e tutte
queste cose son tali, che anche un autore di grande ingegno ne può essere
soddisfatto e stimolato: oltre ai piccoli incidenti di società che eccitano a
composizioni teatrali, oltre coloro che per mestiere ed interesse ricercano e
stimolano scrittori di tal genere, oltre gl’interessi o i bisogni degli autori,
gl’impegni, il desiderio di certe lodi di certi successi diremo così
cittadineschi, o di partito, o di conversazione, e di amici ec. oltre
massimamente la varietà successiva de’ costumi e delle usanze non meno teatrali
e appartenenti alle rappresentazione quanto di quelle che occorrono nella vita
e nelle cose da rappresentarsi. Così che allo scrittore drammatico, resta
sempre un campo sufficiente. E la gran fama di Sofocle non impedì che gli
succedesse un Euripide. La differenza tra questo e gli altri generi di componimento,
consiste che gli effetti, l’uso, la destinazione di questo è come viva, [812]e
sempre viva, e cammina, laddove degli altri è come morta ed immobile. Non
sarebbe così se esistessero come anticamente quelle radunanze del popolo, dove
Erodoto leggeva la sua storia, e se le poesie fossero scritte come i poemi d’Omero
per esser cantati alla nazione, e se i tempi de’ Tirtei e de’ Bardi non fossero
svaniti. Perchè tali componimenti non essendo più di uso, ci contentiamo di
quello che in quel tal genere è già perfetto, e appena desideriamo altro nuovo
modello di perfezione. Altrimenti accade di quello che è sempre di uso vivo, e
se tale avesse continuato ad essere l’eloquenza latina dopo Cicerone ella
avrebbe forse avuto nuovi sommi oratori.
(18.
Marzo 1821)
In quelle
parole che incominciano per s impura, la lingua par che abbia bisogno di
un appoggio avanti la s, ossia avanti la parola. La lingua francese e la
spagnuola amano questo appoggio nelle così fatte parole che hanno ricevute da’
latini o da chicchessia, ovvero formate da loro. E la spagnuola principalmente
che non ha se non pochissime parole cominciate da s impura. [813](Il
Franciosini ne riporta solo 16, e tutte cominciate da sc con dietro
varie vocali). Ora dovendo dare alla lingua questo appoggio di una vocale non
si è scelta altra che la e. Così da sperare gli spagnuoli hanno
fatto esperar, i francesi espérer, da species gli
spagnuoli especie, i francesi espèce, da spiritus gli
spagnuoli espiritu i francesi esprit, da studium gli
spagnuoli estudio i francesi estude che poi tolta via la s
hanno fatto étude, da scribere gli spagnuoli escrivir, gli
antichi francesi escrire, da stomachus estomago estomac ec. ec.
Tanto è vero che dove la lingua ha bisogno di un appoggio o gradisce un
appoggio per pronunziare una consonante, e riposarla nella vocale, senza che
questa sia determinata, la lingua sceglie naturalmente e cade e si riposa nella e. E così anche, come si vede per la detta osservazione, quando questa
vocale le ha da servire come di gradino alla pronunzia di consonanti. L’Italia
quanto alla s impura non è stata più delicata dei latini e de’ latini. [814]Vero
è però che quando la s impura, sarebbe preceduta da consonante, l’Italia
per usanza non naturale, ma gramaticale, artifiziale, acquisita, e particolare
sua, v’interpone la i non la e (in ispirito ec.). Credo
però che il contrario facessero scrivendo i primi italiani. Del resto riferite
alla suddetta osservazione il nostro dire ef el ec. e non if il.
(18.
Marzo 1821.)
La
nostra condizione oggidì è peggiore di quella de’ bruti anche per questa parte.
Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno per infelice
che possa essere, o pensa a torsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il
coraggio di proccurarsela. La natura che in loro conserva tutta la sua
primitiva forza, li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se qualcuno di essi
potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl’impedirebbe questo desiderio.
Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi
desideriamo bene spesso la morte, e ardentemente, e come unico evidente e
calcolato rimedio delle nostre infelicità, in maniera che noi la desideriamo
spesso, e con piena ragione, e siamo costretti a desiderarla [815]e
considerarla come il sommo nostro bene. Ora stando così la cosa ed essendo noi
ridotti a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior
miseria che il trovarsi impediti di morire, e di conseguire quel bene che
siccome è sommo, così d’altra parte sarebbe intieramente in nostra mano;
impediti, dico, o dalla Religione, o dall’inespugnabile, invincibile,
inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine,
e di quello che ci possa attendere dopo la morte? Io so bene che la natura
ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei
leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del
tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la
felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti
incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non dovevamo
mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura, e per forza di
ragione, s’è anzi impossessato di noi; [816]perchè questa stessa ragione
c’impedisce di soddisfarlo, e di riparare nell’unico modo possibile ai danni ch’ella
stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite
dalla natura non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna di
quelle cose dov’elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in
quella dove oggidì ci nocciono, e sommamente? Perchè dopo che la ragione ha
combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza,
per porre il colmo all’infelicità nostra, coll’impedirci di condurla a quel
fine che sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va d’accordo colla natura in
questo solo, che forma l’estremo delle nostre disgrazie? La ripugnanza naturale
alla morte è distrutta negli estremamente infelici, quasi del tutto. Perchè
dunque debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura? Il fatto è
questo. Se la Religione non è vera, s’ella non è se non un’idea concepita dalla [817]nostra misera ragione, quest’idea è la più barbara cosa che possa
esser nata nella mente dell’uomo: è il parto mostruoso della ragione il più
spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la
ragione, la quale avendo scancellato dalla mente dall’immaginativa e dal cuor
nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati; questa
sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero
dubbio (che è tutt’uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana
gli stessi effetti nè più nè meno che la certezza), questa sola che mette il
colmo alla disperata disperazione dell’infelice. La nostra sventura il nostro
fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la
miseria nostra quando ci piaccia. L’idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta
inesorabilmente, e irrimediabilmente, perchè nata una volta quest’idea nella
mente nostra, come [818]accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo
dubbio come arrischiare l’infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la
sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l’infinito e
il finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia dubbio. Così che
siccome l’infelicità per quanto sia grave, nondimeno si misura principalmente
dalla durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un
momento solo, e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il
saper di certo ch’è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia;
così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità dell’uomo
misero, ma non istupido nè codardo, è l’idea della Religione, e che questa, se
non è vera, è finalmente il più gran male dell’uomo, e il sommo danno che gli
abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazione; o i
suoi pregiudizi.
[819]Che cosa è barbarie in una lingua?
Forse quello che si oppone all’uso corrente di essa? Dunque una lingua non
imbarbarisce mai, perchè ogni volta ch’ella imbarbarisse, quella barbarie non
potendo essere in altro che nell’uso corrente (altrimenti sarà barbarie
parziale di questo o di quello, e non della lingua), non sarebbe barbarie
essendo conforme all’uso. Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello
che si oppone all’indole sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà in
questo: giacchè in fatti una parola, uno scrittore barbaro ordinarissimamente
sono conformi all’uso di quel tempo, lo seguono, ne derivano, e così accade
oggidì nella lingua italiana. Di più, nessun secolo sarebbe mai, o sarebbe [820]mai
stato barbaro per nessuna lingua. Al più si potrebbe dire se quella lingua di
quel tal secolo fosse più o meno bella, ricca, buona, ec. confrontando fra loro
i secoli di una stessa lingua, come si confrontano le diverse lingue fra loro,
delle quali se questa o quella si giudica men pregevole, non perciò si giudica
barbara. Anzi si chiamerebbe barbara se contro l’indole sua, volesse adottare e
accomodarsi all’andamento di una lingua migliore più bella ec. come se la
lingua inglese volesse adottare le forme della greca ec. Insomma barbarie in
qualunque lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia pregio, nè quello che
contraddice all’uso corrente, ma quello solo che contraddice all’indole sua
primitiva, per conservar la quale ella deve conservarsi anche meno pregevole,
se tale è la sua natura, perchè i pregi essendo relativi, sarebbe vizio e
bruttezza in lei, quello ch’è virtù e bellezza in un’altra, se si oppone alla
sua natura in cui consiste la perfezion vera [821](benchè relativa) non
solo di una llngua, ma di ciascuna cosa che sia.
Da
queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti convengono,
salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le precedenti, e che
non si può negare se queste si riconoscono, e concedono. Che cosa è barbarie
nell’uomo? Quello che si oppone all’uso corrente? Dunque nessun popolo, nessun
secolo barbaro. Barbarie è quel solo che si oppone alla natura primitiva dell’uomo.
Ora domando io se i nostri costumi, istituti, opinioni ec. presenti sarebbero
stati compatibili colla nostra prima natura. Come potevano esserlo, quando anzi
la natura ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli? Che non siano
compatibili colla nostra primitiva natura, è così manifesto, anche per la
osservazione sì di ciascuno di noi, sì de’ fanciulli, selvaggi, ignoranti ec.
ec. che non ha bisogno di dimostrazione. Dunque se non sono compatibili, è
quanto dire che le ripugnano e contrastano. Dunque? dunque son barbari. [822]Che
sieno conformi all’uso e all’abitudine, non val più di quello che vaglia la
stessa circostanza a scusare un secolo depravato nella lingua. Che si stimino
buoni assolutamente, e più buoni de’ naturali e primitivi, primieramente non
val più di quello che vaglia nella lingua, come ho detto; poi, siccome nella
lingua, questa opinione è erronea, e deriva dall’inganno parte dell’abitudine,
parte della immaginaria perfezione assoluta, là dove è sostanzialmente
imperfezione e vizio tutto ciò che si oppone all’indole e natura particolare e
primitiva di una specie, quando anche questo medesimo sia virtù e perfezione in
altra specie.
Non
solamente ciascuna specie di bruti stima o esplicitamente e distintamente, o
certo implicitamente e confusamente, di esser la prima e più perfetta nella
natura, e nell’ordine delle cose, e che tutto sia fatto per lei, ma anche nello
stesso modo ciascun individuo. E così accade tra gli uomini, che implicitamente [823]e naturalmente ciascuno si persuade la stessa cosa.
Parimente
non v’è popolo sì barbaro che non si creda implicitamente migliore, più
perfetto, superiore a qualunque altro, e non si stimi il modello delle nazioni.
Parimente
non v’è stato secolo sì guasto e depravato, che non si sia creduto nel colmo
della civiltà, della perfezione sociale, l’esemplare degli altri secoli, e
massimamente superiore per ogni verso a tutti i secoli passati, e nell’ultimo
punto dello spazio percorso fino allora dallo spirito umano.
Con
questa differenza però, che sebbene tutto è relativo in natura, è relativo
peraltro alle specie, così che le idee che una specie ha della perfezione ec.
appresso a poco sono comuni agl’individui tutti di essa (massime se sono le
idee naturali alla specie). Quindi è naturale e conseguente che un individuo,
sebben portato naturalmente a credersi superiore al resto della sua specie, e
tutto il mondo destinato all’uso [824]e vantaggio suo, contuttociò con
poco di raziocinio facilmente possa riconoscere la superiorità di altri
individui della stessa specie, e credere il mondo avere per fine la sua specie
intera, e questa essere tutta la più perfetta delle cose esistenti, e l’apice
della natura. Quindi parimente un popolo, un secolo (ho parlato e parlo degli
uomini, e si può applicare proporzionatamente agli altri viventi) o qualche
individuo in essi, possono ben riconoscere la superiorità di altri popoli e
secoli, perchè le idee relative del bello e del buono sono però, almeno in gran
parte, generali in ciascuna specie, quando non derivino da pregiudizi, da
circostanze particolari, o da alterazione qualunque di questa o di quella parte
della specie, com’è avvenuto fra gli uomini, essendo alterata la loro natura, e
diversamente alterata, e quindi anche alterate le idee naturali, e
diversificate le opinioni ec.
Questo,
dico, accade facilmente all’individuo umano, rispettivamente alla sua propria
specie. Ma rispetto ad un’altra specie non [825]così. 1. Perchè le idee
che son vere relativamente alla specie nostra, noi (e così ciascuna specie di
viventi) le crediamo (e ciò per natura) vere assolutamente: quello ch’è buono e
perfetto per noi, lo crediamo buono e perfetto assolutamente; e quindi
misurando le altre specie sulla nostra misura, le stimiamo tutte inferiori d’assai;
nè possiamo mai credere che in una specie diversa dalla nostra ci sia tanta
bontà e perfezione quanta in essa nostra, perchè la perfezione essendo relativa
e particolare, noi la crediamo assoluta, e norma universale. 2. Perchè non ci
possiamo mai porre nei piedi e nella mente di un’altra specie (come nessun
bruto), per concepire le idee ch’essa ha del buono, del bello, del perfetto, e
misurare quella specie secondo queste idee, le quali sono diversissime dalle
nostre, e non entrano nella capacità della nostra natura, e nel genere della
nostra facoltà nè intellettiva, nè immaginativa, nè ragionatrice, nè concettiva [826]ec. ec.
(20.
Marzo 1821.)
An
censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos
nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si iisdem finibus gloriam
meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem,
et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? SED, NESCIO QUOMODO,
ANIMUS ERIGENS SE, POSTERITATEM SEMPER ITA PROSPICIEBAT, QUASI, CUM EXCESSISSET
E VITA, TUM DENIQUE VICTURUS ESSET; quod quidem ni ita se haberet, ut animi
immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitatem gloriae
niteretar. Catone maggiore appresso Cic. Cato maior seu de Senect. c. ult. 23.
Tanto è vero che il piacere è sempre futuro, e non mai presente, come ho detto
in altri pensieri. Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone
dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico
quella speranza riposta [827]nella posterità, quel riguardare, quel
proporsi per fine delle azioni dei desideri delle speranze nostre la lode ec.
di coloro che verranno dopo di noi. L’uomo da principio desidera il piacer
della gloria nella sua vita, cioè presso a’ contemporanei. Ottenutala, anche
interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere, non solo è
inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore
della speranza), ma non piacere, e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come
non avendo ottenuto nulla, e come se il suo fine restasse ancora da conseguire
(cioè il piacere, infatti non ottenuto, perchè non è mai se non futuro, non mai
presente); allora l’animo suo erigens se quasi fuori di questa vita,
posteritatem respicit, come che dopo morte tum denique victurus sit, cioè debba
conseguire il fine, il complemento essenziale della vita, che è la felicità,
vale a dire il piacere, non conseguito ancora, e già troppo evidentemente non
conseguibile da lui in questa vita; allora la speranza del piacere, non avendo [828]più
luogo dove posarsi, nè oggetto al quale indirizzarsi dentro a’ confini di questa
vita, passa finalmente al di là, e si ferma ne’ posteri, sperando l’uomo da
loro e dopo morte quel piacere, che vede sempre fuggire, sempre ritrarsi,
sempre impossibile e disperato di conseguire, di afferrare in questa vita. E si
riduce l’uomo a questo estremo, perchè come il fine della vita è la felicità, e
questa qui non si può conseguire, ma d’altra parte una cosa non può mancare di
tendere al suo fine necessario, e mancherebbe se mancasse del tutto la
speranza, così questa non trovando più dimora in questa vita arriva finalmente
a collocarsi al di là di lei, colla illusione della posterità. Illusione
appunto più comune negli uomini grandi, perchè laddove gli altri, conoscendo
meno le cose, o ragionando meno, ed essendo meno conseguenti, dopo infiniti
parziali disinganni e delusioni, continuano pure a sperare dentro i limiti
della lor vita; essi al contrario ben persuasi, e ben presto, cioè con poche
esperienze, disperati dell’attuale e vero piacere in questa vita, e d’altronde [829]bisognosi
di scopo, e quindi della speranza di conseguirlo, e spronati pure dall’animo
alle grandi azioni, ripongono il loro scopo, e speranza, al di là dell’esistenza,
e si sostentano con questa ultima illusione. Quantunque non solo dopo morte o
non saremo capaci di felicità nessuna, o di tutt’altra da quella che possa
derivare dai posteri; ma quando anche fossimo allora tanto capaci di godere
della fama nostra appo i futuri, quanto siamo ora di quella appo i
contemporanei, quella fama (durando le stesse condizioni dell’animo nostro e
del piacere) ci riuscirebbe, siccome questa presente, del tutto insipida, e
vuota, e incapace di soddisfare, e proccurare un piacere altro che futuro, dico
un piacere attuale e presente. (20. Marzo 1821.). Applicate questi pensieri
alla speranza di felicità futura in un altro mondo.
La
ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di vederla punita, ma negli
alti il desiderio di punirla.
(20.
Marzo 1821.)
Desiderar
la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, [830]non
è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderar di vivere è quanto
desiderare di essere infelice.
(20.
Marzo 1821.)
Non
solamente è ridicolo che si pretenda la perfettibilità dell’uomo, in quanto
alla mente, o a quello che vi ha riguardo, come ho detto in altro pensiero, ma
anche in quanto ai comodi corporali.
Paiono oggi così necessari quelli che sono in uso, che si crede quasi
impossibile la vita umana, senza di questi, o certo molto più misera, e si
stimano i ritrovamenti di tali comodità, tanti passi verso la perfezione e la
felicità della nostra specie, massime di certe comodità che sebbene
lontanissime dalla natura, contuttociò si stimano essenziali e indispensabili
all’uomo. Ora io non domanderò a costoro come abbian fatto gli uomini a viver
tanto tempo privi di cose indispensabili; come facciano oggi tanti popoli di
selvaggi; parecchi ancora de’ nostrali e sotto a’ nostri occhi, tuttogiorno.
(anzi ancora quegli stessi più che mai assuefatti a tali cose pretese
indispensabili, quando per mille diversità di accidenti, si trovano in
circostanza di mancarne, alle volte anche volontariamente.) I quali tutti, in
luogo di accorgersi della loro infelicità, hanno anzi creduto [831]e
credono e si accorgono molto meno di essere infelici, di quello che noi
facciamo a riguardo nostro: e molto meno lo erano e lo sono, sì per questa
credenza, come anche indipendentemente. Non chiamerò in mio favore la setta
cinica, e l’esempio e l’istituto loro, diretto a mostrare col fatto, di quanto
poco, e di quante poche invenzioni e sottigliezze abbisogni la vita naturale
dell’uomo. Non ripeterò che, siccome l’abitudine è una seconda natura, così noi
crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione. E che molti
anzi infiniti bisogni nostri sono oggi reali, non solamente per l’assuefazione,
la quale, com’è noto, dà o toglie la capacità di questo o di quello, e di
astenersi da questo o da quello; ma anche senza essa per lo indebolimento ed
alterazione formale delle generazioni umane, divenute oggidì bisognose di certi
aiuti, soggette a certi inconvenienti, e quindi necessitose di certi rimedi,
che non avevano alcun luogo nella umanità primitiva. Così la medicina, così l’uso
di certi cibi, di vesti diversificate secondo le stagioni, di [832]preservativi
contra il caldo, il freddo ec. di chirurgia ec. ec. Lascerò tutte queste cose e
perchè sono state dette da altri, e perchè potrebbero deridermi come partigiano
dell’uomo a quattro gambe. Solamente ripeterò quel ragionamento che ho usato
nella materia della perfettibilità mentale. Dunque se tutto questo era
necessario o conveniente alla perfezione e felicità dell’uomo, come mai la
natura tanto accurata e finita maestra in tutto, glielo ha non solo lasciato
ignorare, ma nascosto, quanto era in lei? Diranno che la natura avendo dato a
un vivente le facoltà necessarie, ha lasciato a lui che con queste facoltà
ritrovasse e si procacciasse il bisognevole, e che all’uomo ha lasciato più che
al bruto, perchè a lui diede maggiori facoltà, e così proporzionatamente ha fatto
secondo le maggiori o minori facoltà negli altri bruti. Altro è questo, altro è
mettere una specie di viventi in una infinita distanza da quello che si suppone
necessario al suo ben essere, e alla perfezione della sua esistenza. Altro è
permettere anzi volere e disporre che infinito [833]numero, che
moltissime generazioni di questi viventi restassero prive o affatto o in
massima parte di cose necessarie alla loro perfezione. Altro è mettere nel
mondo il detto vivente tutto nudo, tutto povero, tutto infelice e misero, col
solo compenso di certe facoltà, per le quali, solamente dopo un gran numero di
secoli, sarebbe arrivato a conseguire qualche parte del bisognevole a minorare
l’infelicità di una vita il cui scopo non è assolutamente altro che la felicità.
Altro è ordinare le cose in modo che gran parte di questa specie (come tanti
selvaggi poco fa scoperti, o da scoprirsi) dovesse restare fino al tempo
nostro, e chi sa fino a quando, appresso a poco nella stessa imperfezione e
infelicità primitiva (il che si può applicare anche alla pretesa perfettibilità
della mente e delle varie facoltà dell’uomo). E tutto ciò in una specie
privilegiata, e che si suppone la prima nell’ordine di tutti gli esseri. Bel
privilegio davvero, ch’è quello di veder tutti gli altri viventi conseguire
immediatamente la loro relativa perfezione [834]e felicità, senza
stenti, nè sbagli, ed essa intanto per conseguire la propria, stentare, tentare
mille strade, sbagliare mille volte, e tornare indietro, e finalmente dovere
aspettare lunghissimo ordine di secoli, per conseguire in parte il detto fine.
Osserviamo quanti studi, quante invenzioni, quante ricerche, quanti viaggi per
terra e per mare a remotissime parti, e combattendo infiniti ostacoli, sì della
fortuna, sì (ch’è più notabile) e massimamente della natura, per ridurci,
quanto al corpo, nello stato presente, e proccurarci di quelle stesse cose che
ora si stimano essenziali alla nostra vita. Osserviamo quante di queste,
ancorchè già ritrovate, abbiano bisogno ancora dei medesimi travagli infiniti
per esserci procacciate. Osserviamo quanto ancora ci manchi, quanto sia di
scoperta recentissima o assolutamente o in comparazione dell’antichità della
specie umana; quanto ogni giorno si ritrovi, e quanto si accrescano le
cognizioni pretese utili alla vita, anche delle più essenziali (come in
chirurgia, medicina ec.); quante cose si ritroveranno e verranno poi in uso,
che a noi avranno mancato, e che i nostri [835]posteri giudicheranno
tanto indispensabili, quanto noi giudichiamo quelle che abbiamo. Domando se
tutta questa serie di difficilissimi mezzi conducenti al fine primario della
natura ch’è la felicità e perfezione delle cose esistenti e il loro ben essere, e massime de’ viventi, e de’ primi tra’ viventi, entravano nel sistema,
nel disegno, nel piano della natura, nell’ordine delle cose, nella primordiale
disposizione e calcolo relativamente alla specie umana. Domando se nel piano
nell’ordine nel calcolo de’ mezzi conducenti al fine essenziale e primario, ch’è
la felicità e perfezione, mezzi per conseguenza necessari ancor essi, v’entrava
anche il caso. Ora è noto quante scoperte delle più sostanziali in questo
genere, e dell’uso il più quotidiano, e di effetti e applicazioni
rilevantissime, non le debba l’uomo se non al puro e semplice caso. Dunque il
puro e semplice caso entrava nel sistema primordiale della natura; dunque ella
lo ha calcolato come mezzo necessario; dunque [836]ella ne ha fatto
dipendere il fine essenziale e primario; dunque si è contentata che non
accadendo il tale e tale altro caso, o non accadendo in quel tal modo ec. ec. o
accadendo bensì quello ma non questo ec. la specie umana, la maggiore delle sue
opere, restasse imperfetta e infelice, e priva del fine della sua esistenza, e
similmente tutte quelle parti dell’ordine delle cose che dipendono o hanno
stretta connessione colla specie umana.
Bisogna
osservare che la sfera del caso si stende molto più che non si crede. Un’invenzione
venuta dall’ingegno e meditazione di un uomo profondo, non si considera come
accidentale. Ma quante circostanze accidentalissime sono bisognate perchè quell’uomo
arrivasse a quella capacità. Circostanze relative alla coltura dell’ingegno
suo; relative alla nascita, agli studi, ai mezzi estrinseci d’infiniti generi,
che colla loro combinazione l’han fatto tale, e mancando lo avrebbero reso
diversissimo (onde è stato detto che l’uomo è opera del caso); relative alle
scoperte e cognizioni acquistate da altri prima [837]di lui, acquistate
colle medesime accidentalità, ma senza le quali egli non sarebbe giunto a quel
fine; relative all’applicazione determinata della sua mente a quel tale
individuato oggetto ec. ec. ec. Nello stessissimo modo discorrete di una
scoperta fatta p.e. mediante un viaggio, mediante un’Accademia, una intrapresa
pubblica, o regia ec. la quale scoperta si suol mettere del tutto fuori della
sfera degli accidenti. E vedrete che siccome da una parte la sfera del caso, in
tutte le cose, massime umane, si stende assai più che non si crede, così d’altra
parte, o tutte o il più di quelle invenzioni ec. che ora sono d’uso creduto di
prima necessità, ed essenziale alla vita umana, sono effettivamente dovute al
caso. Paragonate ora questa incredibile negligenza della natura, nell’abbandonare
a un mezzo sì incerto lo scopo primario della primaria specie di viventi, cioè
la felicità dell’uomo; con quella certezza e immancabilità di mezzi che la
natura ha adoperata per tutti gli altri suoi fini, ancorchè di minore
importanza: e giudicate se si possa mai supporre [838]per vera.
Quanto
più l’indole, la struttura, l’andamento di una lingua, è conforme alle regole
naturali, semplice, diritto ec. tanto più quella lingua è adattata alla
universalità. E per lo contrario tanto meno, quanto più ella è figurata, composta,
contorta, quanto più v’ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e
proprio suo, o de’ suoi scrittori ec. non della natura comune delle cose. Le
prime qualità spettano per eccellenza alla lingua francese, quantunque la
lingua italiana le possieda molto più della latina, anzi senza confronto;
tuttavia in esse (e felicemente) cede alla francese, come tutte le lingue
moderne Europee, quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina,
anzi la vinca di gran lunga, e neppure alla greca.
Come
queste qualità giovino alla universalità di una lingua, è manifesto già per se
stesso, ma lo sarà anche più per le segg. considerazioni. Un effetto naturale
di dette qualità, è che il linguaggio degli scrittori, o nulla [839][o]
poco differisca dal familiare, e comune alla nazione. Così accade alla Francia,
il contrario in Italia, il contrarissimo nel latino. Questo effetto cagiona
che, quella stessa lingua che si parla trovandosi scritta, 1. se ne dimezzi per
così dire la difficoltà: 2. le persone volgari, o la conversazione qualunque
alta o bassa dei parlatori di quella lingua, sia tanto buona maestra e
propagatrice di essa presso gli stranieri, fuori o dentro il paese, come lo
possano essere gli scrittori: 3. e per lo contrario gli scrittori lo siano
tanto, quanto i negozianti, i viaggiatori, e chiunque parla quella lingua cogli
stranieri, sì nel suo proprio paese come fuori: 4. quindi e i parlatori e gli
scrittori propaghino tutti unitamente una sola e stessa lingua ovvero
linguaggio; o vogliamo dire due linguaggi così poco differenti, che inteso
qualsivoglia de’ due, senza nessuna fatica s’intenda e si parli anche l’altro.
Effetto notabilissimo: perchè l’influenza degli scrittori è somma nel propagare
una lingua; ma d’altra parte per mezzo degli scrittori, non può mai divenire [840]universale,
se da essi non s’impara a parlarla cioè usarla; ed allora potrà esser divulgata
per solo studio e ornamento, com’era una volta l’italiana: l’influenza de’
parlatori è somma, ma minore assai, se non cospira con quella degli scrittori,
se per mezzo di essa non si viene a capo di mettersi in relazione col resto
della nazione, colla totalità per così dire di essa, il che non si può fare se
non per mezzo degli scrittori, e tanto più, quanto più questi sono divulgati
intesi e letti dalla totalità della nazione, e non dalla sola classe letterata.
La unione di queste due influenze, partorisce dunque un effetto massimo. Lo
straniero di qualunque condizione, per qualunque circostanza, per qualunque
inclinazione, per qualunque professione, per qualunque mezzo, per qualunque
fine, abbia dovuto, abbia voluto, si sia abbattuto ad apprendere quella lingua,
è padrone di tutta quanta ella è, di parlarla e intender chi la parla, di
leggerla, di scriverla, di usarla comunque le aggrada, nella conversazione, nel
commercio, e al tavolino; di mettersi in communicazione con tutta [841]quella
nazione che la parla o scrive, e con tutti quegli stranieri che l’adoprano in
qualunque modo e per qualunque motivo. Il letterato che l’ha appresa per
istruirsi, e per conoscere quella letteratura; il negoziante che l’ha appresa
per usi di mercatura; quegli che l’ha appresa senza studio, e per sola pratica
o de’ nazionali, o de’ forestieri ec. ec. tutti sono appresso a poco nello
stesso grado, ed hanno gli stessi vantaggi.
Questi
effetti risultano dalla parità di linguaggio fra gli scrittori e la nazione, e
risultano in maggiore o minor grado, in proporzione che la causa è maggiore o
minore. In Francia è grandissima, e non solo la detta parità di linguaggio, ma
anche la effettiva popolarità e nazionalità degli scrittori e della
letteratura. In Italia oggidì (che nel trecento era tutto l’opposto) la lingua
scritta degli scrittori, sebbene differisca dalla parlata molto meno che fra’
latini, tuttavia differisce, credo, più che in qualunque altro paese culto,
certamente Europeo. [842]E questo forse in parte cagiona la nessuna
popolarità della nostra letteratura, e l’essere gli ottimi libri nelle mani di
una sola classe, e destinati a lei sola, ancorchè pel soggetto non abbiano a
far niente con lei. Il che però deriva ancora dalla nessuna coltura, e
letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi anche piacevoli, che regna
nelle altre classi d’Italia; noncuranza che deriva finalmente dal mancare in
Italia ogni vita, ogni spirito di nazione, ogni attività, ed anche dalla
nessuna libertà, e quindi nessuna originalità degli scrittori ec. Queste
cagioni influiscono parimente l’una sull’altra, e nominatamente sulla disparità
della lingua scritta e parlata, e tutte con iscambievoli effetti contribuiscono
sì a tener lontano dall’Italia ogni spirito di patria, ogni vita, ogni azione;
sì ad impedire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a mantenere la
intera divisione che sussiste fra la classe letterata e le altre, fra la
letteratura e la nazione italiana. Nel cinquecento, e anche durante il
seicento, sebbene la lingua scritta italiana, si [843]fosse allontanata
dalla parlata, molto più che nel trecento (non però quanto oggidì), tuttavia la
letteratura continuava ancora in grandissima relazione colle classi, se non
volgari, certo non di professione letterata, e quindi anche passava agli
stranieri. E ciò, parte perchè la nazione conservava ancora un sentimento, uno
spirito patrio, un’azione, una vita, e gli scrittori bastante libertà ed
originalità; parte perchè l’italiano che si parlava, era italiano ancora, più o
meno, e non barbaro, come oggidì, che volendo scrivere come si parla, non si
scriverebbe italiano, anzi appena si riuscirebbe a farsi intendere alla stessa
nazione. Ed allora lo studio della lingua era più diffuso, e la letteratura
parimente, e più viva e in movimento, e maggiore il numero dei letterati di
professione, e degli scrittori buoni, e di quelli che senza esser letterati,
aveano tanta letteratura quanto basta per essere buon lettore, e per curarsi di
leggere. E gli argomenti che si trattavano erano più nazionali, più importanti,
più nuovi, [844]più propri dello scrittore ec. brevemente c’era un altro
spirito letterario e negli scrittori e nella nazione.
Dall’applicazione
di questi principii alle lingue moderne, passiamo alle lingue antiche. Che la
forma e struttura di una lingua fosse così ragionevole, così conforme alla
stretta verità ed ordine delle cose, come lo può essere in qualche lingua
moderna, non era possibile fra gli antichi, dove regnava molto più l’immaginazione,
che la secca e infelice ragione. Non bisogna dunque nelle ragioni della
universalità di una lingua antica, ricercar troppa conformità, con quelle che
richiedonsi allo stesso effetto in una lingua moderna. Una lingua antica poteva
essere adattata alla universalità fino a un certo segno, e conseguirla, ma non
mai quanto una moderna. La lingua greca sebbene più figurata non solo della
francese, ma della italiana (dico della italiana che non pecchi di troppa, e a
lei non naturale conformità col latino andamento, come peccò alle volte nel
500. al contrario [845]del 300, e della sua vera indole) contuttociò era
nella sua primitiva qualità, di una forma, se non ragionevole, naturalissima
però, e semplicissima, e facilissima. Sino a tanto ch’ella mantenne il suo vero
genio, mantenne anche queste proprietà. Le mantenne in Erodoto, in Senofonte,
negli Oratori Attici, e generalmente più o meno in tutti gli scrittori degli
ottimi suoi secoli sempre appresso a poco, in proporzione dell’antichità
rispettiva. Gli scrittori che successero a questi, benchè buoni ancor essi,
benchè lontani dalla turgidezza, dall’arguzia, dalla decisa oscurità, dalla
soverchia intralciatura, dalla immodestia dello stile e della lingua,
allontanarono però moltissimo la lingua greca, da quella nativa, nuda,
schietta, spontanea, facile bellezza e grazia de’ suoi ottimi e primi
scrittori, e sforzarono la sua primitiva natura ed indole, accostandola
piuttosto alla struttura latina, che alla propria sua. Questo si nota in
Polibio, in Dionigi d’Alicarnasso, ma molto più ne’ susseguenti, come in
Luciano, molto più e soprattutto in Longino. Scrittori elegantissimi, [846]di
eleganza non affettata, non impura, non corrotta, non malsana, ma diversa da
quella semplicissima eleganza dell’antica lingua greca, e se non contraria e
ripugnante, certo rimota dall’indole e dal costume suo primitivo: nello stesso
modo che si può dire di alcuni cinquecentisti modellatisi forse troppo sui
latini, e non perciò corrotti, nè affettati, nè ripugnanti all’indole della
lingua italiana, ma diversi dal di lei primitivo costume manifestato nei
trecentisti; appresso i quali la lingua italiana, come somiglia moltissimo nell’andamento
alla greca, così ebbe poi a patire quella stessa, benchè per se medesima non
cattiva, diversificazione che patì, come ho detto, la lingua greca; e come
questa, cessare appoco appoco da quella parità di linguaggio ch’era tra gli
scrittori e la nazione, nell’una e nell’altra lingua, come della greca lo dirò
poi. Di facilissima ch’era l’antica scrittura greca, divenne appoco a poco, se
non oscura, certo difficile, essendo declinata in quell’idioma lavorato ed
ornato, che o nello stesso [847]tempo, o poco prima o dopo, divenne
proprio de’ latini, da’ quali io non discrederei che fosse passato quel costume
e quel gusto ai greci (ma bisognerebbe esaminare gli scrittori greci intermedii
fra Demostene, e quelli che furono ai tempi Romani); sebben potesse molto
naturalmente nascere dallo studio, dagli Atticisti che uscivan fuori, dal
ridursi la cosa a regola, e la eleganza a misura e meditazione, e ricerca ec.
Longino, sebbene fioritissimo delle possibili eleganze e gentilezze della
lingua greca, le ricerca tanto, e le accumola (senza però affettazione), che si
trovano più frasi e modi figurati in lui che in dieci antichi greci tutti
insieme; e sì per questo sì per la struttura intrecciata, composta, manipolata
dell’orazione; la lunghezza, e strettissima e fortissima legatura de’ periodi,
le ambagi ec. riesce tanto difficile quanto i più difficili e lavorati
scrittori latini. Ai quali egli somiglia tanto, che, massime vedendolo studioso
di Cicerone, non dubito, quanto a lui, che quello scrivere non gli sia derivato
dai latini, e ch’egli non abbia o voluto trasportare, [848]o (come si
fosse) trasportato l’indole e gli spiriti latini nella lingua greca, quanto
però questa lo comportava; perchè a ogni modo, come faranno sempre tutte le
lingue, ella conserva anche presso lui, il suo sembiante diverso dall’altrui.
Non dirò niente de’ Sofisti, e degli altri scrittori dell’infima letteratura
greca, anche di quella letteratura già moriente e disperata (come ai tempi di
Teofilatto Arcivescovo di Bulgaria). I quali quando volevano stare davvero sull’attillato,
scrivevano in modo che unita alla viziosa e corrotta ricercatezza, arguzia, e
oscurità dello stile, la ricercatezza, e attortigliamento, e tortuosità della
lingua, sono di tanta difficoltà ad intenderli, di quanto poco uso ad averli
intesi.
Questa
declinazione della lingua greca dal suo primo sentiero, e costume ed indole, si
può far manifesto ancora considerando la lingua d’Isocrate. Il quale è tanto
famoso per la delicatissima cura che poneva nella scelta e collocazione delle
parole, nella struttura ed armonia de’ periodi, che si potrebbe credere ch’egli,
quantunque pel tempo appartenga a quegli [849]antichi scrittori ch’io ho
distinto da’ più moderni, pel carattere però della sua lingua appartenesse
piuttosto a quegli ultimi. E pure la sua cura, qualunque fosse, è così
nascosta, la sua lingua, la collocazione e l’ordine delle sue parole, la
struttura de’ periodi, e dell’orazione, così facile, piana, semplice, naturale,
spontanea, che non solo non si allontana dalla primitiva indole della sua
lingua, ma riesce anche più chiaro e facile e stralciato di parecchi altri
degli ottimi; e certo non meno di veruno di essi. Tanto che a paragonare
Isocrate stimato l’elegantissimo e l’accuratissimo degli ottimi scrittori
greci, col meno elegante e lavorato de’ buoni, si troverà questo, molto più
difficile, e men piano e svolto di lui. Sicchè, come da Senofonte ed Erodoto
conosciamo qual fosse la semplicità e la soavità, da Tucidide e Demostene la
forza e il nervo di quella antica lingua greca, così da Isocrate conosciamo
qual ne fosse la eleganza, e la galanteria; e quanto diversa da quella che
sotto questo nome fu introdotta [850]ne’ secoli e dagli scrittori ancor
buoni e notabilissimi, ma non ottimi, della greca letteratura.
Finchè
questa dunque durò nel suo primo ed ottimo stato, la diversità fra la lingua
parlata e scritta, fu piccola, e, credo io, non molto maggiore di quella che
ora sia in Francia. Prova ne può essere fra le altre molte l’aver letto Erodoto
la sua storia al popolo, e averne riscosso quegli applausi nazionali che tutti
sanno. Cosa che non sarebbe avvenuta, se (posta nel rimanente la parità delle
circostanze) il Guicciardini avesse letta la sua storia alla moltitudine. E se
T. Livio o Tacito avessero fatto lo stesso, non al cospetto di giudici scelti e
intelligenti, ma avendo per giudice, o anche avendo ad esser giudicati da
alcuni pochi, ma applauditi però con entusiasmo dalla moltitudine, crediamo noi
che vi sarebbero riusciti? Quanto alle Orazioni de’ famosi oratori latini,
dette nella concione, ognuno sa, che le scritte erano diverse dalle recitate, e
però da quelle che abbiamo di Cicerone non possiamo argomentare che [851]quello
stesso linguaggio egli usasse col popolo.
Sì
dunque la naturalezza, semplicità e facilità di forma della lingua greca, tanto
negli antichi scrittori, quanto nella nazione; sì la quasi uniformità di
linguaggio che ne seguiva fra i detti scrittori, e il popolo, come questa era
effetto di quella, così ambedue unitamente contribuivano a rendere la lingua
greca adattata alla universalità; adattata dico in proporzione dei tempi, non
quanto bisognerebbe esserlo oggidì, nè quanto lo è la francese, chè oggidì una
lingua per essere universale, ha bisogno di essere arida e geometrica, e la
greca era floridissima e naturalissima; di essere ristretta, e la greca era
larghissima e ricchissima; di essere non bella, e la greca era bellissima.
Perciò la greca non era, e nessuna bella e naturale lingua lo potrà esser mai,
pienamente nè stabilmente universale; ma, sì per le dette ragioni, sì per le
recate in altro pensiero, serviva a quella universalità lassamente [852]considerata,
e non assolutamente, che poteva convenire ad un tempo, dove nè la ragione, nè
le cognizioni esatte, nè la filosofia, nè l’esattezza assolutamente, nè il
commercio scambievole delle nazioni, e de’ loro individui fra essi, avevano
fatto progressi paragonabili in grandezza nè in estensione agli odierni. E si
può anche notare, che siccome erano ancora i tempi della immaginazione e non
della ragione, così (sebben quella è varia, e questa monotona, e uniforme
dappertutto) contuttociò quella stessa immaginazione che regolava quella lingua
fra i greci, poneva anche gli altri popoli, ancora governati dalla
immaginazione, in grado di adattarsi senza troppa difficoltà a quella lingua,
come conforme al carattere di que’ secoli, e di trovare corrispondente alla
propria inclinazione, la naturalezza di quella lingua (parola che io intendo
qui di opporre alla ragionevolezza e geometria, e di adoperarla in questo
senso).
Egli è
evidente che quanto più l’andamento di una lingua è naturale semplice facile, e
non capriccioso presso gli scrittori, [853]tanto più si conforma al
carattere della favella usuale e popolare. E che siccome queste qualità di una
lingua, la rendono più o meno atta alla universalità, così anche alla detta
conformità fra il parlato e lo scritto, conformità dalla quale di nuovo nasce
una grande attitudine alla universalità. Perchè la favella del popolo, sebbene
immaginosa ordinariamente e in qualunque nazione, è però sempre semplice,
piana, facile, o inclina sempre a queste qualità, ed alla naturalezza dell’ordine,
e si allontana dal lavorato, dall’arbitrario, da tutto quello che deriva
puramente dall’individuo o da una data classe d’individui, e non dalla natura e
delle cose e del popolo: natura che sebben diversa dalla ragione, e molto più
varia e copiosa e rigogliosa della ragione; tuttavia presso a poco si
rassomiglia da per tutto e in tutti i popoli. Onde il linguaggio comune di
qualunque popolo, massime relativamente a quelle nazioni che appartengono ad
una stessa classe (come le nazioni colte di Europa) e formano quasi una
famiglia; un tal linguaggio [854], dich’io, per lo meno dentro i limiti
di quella tal famiglia di nazioni, è sempre per se medesimo, e astraendo dalle
circostanze particolari, adattato più o meno alla universalità. Non così quello
degli scrittori, i quali bene spesso allontanandosi appoco appoco dall’andamento
popolare della loro lingua, si allontanano altresì dal carattere universale. E
così la lingua scritta di questa o quella nazione, prendendo appoco appoco un
andamento proprio, e qualità proprie e speciali, per questa proprietà e
specialità, si viene allontanando più o meno dalla linea universalmente
riconosciuta, ed allontana dalla universalità la loro lingua che vi era
naturalmente adattata. Giacchè siccome la lingua della nazione influisce su
quella dello scrittore, così anche la scritta sulla parlata. Talmente che anche
la lingua popolare di una nazione, sebbene senza fallo adattata da principio alla universalità, può e viene effettivamente perdendo più o meno, o scemando
la sua disposizione a questa qualità.
[855]Il detto effetto degli scrittori, e
diversificazione della lingua scritta, dall’andamento naturale della lingua,
accadde in Grecia, ma tardi, e dopo i loro sommi scrittori. Non è accaduto in
Francia. È seguito in Italia dal cinquecento in poi. Seguì in Roma, nella prima
stabile formazione della lingua latina scritta, e per opera de’ primi veramente
classici di quella nazione. Del che resta a parlare.
I primi
scrittori latini, ancorchè perduti, pur si conosce dai loro frammenti, o da
quel poco che ne resta comunque, che, al pari di tutti i primi scrittori di
qualunque lingua, avevano un andamento naturale e semplice, che si accosta al
vero e antico genio della lingua greca, a quello dell’antica lingua italiana,
ossia del trecento; e per conseguenza anche al loro linguaggio nazionale e
parlato. Il che si dimostra anche per altre ragioni, quando non bastasse la
semplice e facile loro andatura per convincere che non si scostavano molto dal
latino volgare. [856]Una delle quali ragioni, o argomenti e conghietture
(giacchè del latino non ci resta il parlato, ma il solo scritto), si è il
trovare in essi buon numero di parole, modi, forme, che non si trovano negli
autori dell’aurea latinità, e che pure son passate, o somigliano alle passate
nella nostra lingua, derivata in gran parte (come con grandi ragioni si prova)
dal volgare latino. E in genere si trova ne’ detti antichi latini gran
conformità (anche in piccole minuzie e materialità, fino di ortografia) coll’italiano,
e molto maggiore, che ne’ seguenti latini scrittori.
Ma o
provenisse dalla differenza dei tempi fra l’ottima letteratura greca e la
latina (che certo la greca venne a tempi di maggior naturalezza, anzi gli
ottimi suoi secoli furono compagni degli ottimi tempi della greca repubblica,
laddove quelli della latina furono contemporanei precisamente della
declinazione e corruzione morale e politica del popolo romano, avvenuta per l’eccesso
di civiltà, e questo per l’eccesso di potere); o provenisse da [857]questo
che i greci formarono da se la loro letteratura e il loro gusto, e quindi più
naturalmente, laddove i latini la formarono sopra quella dei greci (onde ella
fu tutto parto di studio, trovò al suo stesso nascere l’arte già formata e
insignorita dello scrivere, e fece per l’aiuto l’esempio, e l’insegnamento di
una nazione straniera, così rapidi progressi, che la natura appena ebbe
scarsissimo tempo di precedere l’arte, e la letteratura latina fu subito e
intieramente in balia delle regole, e dichiaratamente artifiziale, e polita:
oltre che la stessa arte anche in Grecia, piuttosto declinava già all’eccessivo,
di quello che lasciasse più niente alla natura: onde la letteratura latina
superò immantinente a gran distanza, quella della Grecia contemporanea, com’è
naturale che in un paese dove la letteratura è recente, ella non declini prima
di essere stata ottima, e l’eccesso dell’arte non abbia luogo, prima [858]che
lo abbia avuto il di lei giusto grado: nel quale però durò poco appo i latini,
e la loro letteratura come fu rapida in salire, così nello scendere: e ciò per
la condizione de’ tempi già precipitanti lungi dalla natura, il torrente della
civiltà che ingrossava e tagliava i nervi alla grandezza e alla forza della
specie umana; il contagio dell’arte già passata nella Grecia al di là della
maturità, sì nel resto, come nello scrivere; e la circostanza che la
letteratura latina tardò tanto da cominciare quando restava poco tempo a poter
durare in buon essere, poco tempo alla forza alla grandezza, alla vera vita
degli uomini, poco tempo all’imperio della natura, e delle facoltà vitali dell’uomo,
quando era imminente la corruzione e il precipizio della società, di Roma, delle
nazioni civili, della libertà, del mondo) da quale di queste cagioni
provenisse, o da ambedue insieme, il fatto sta che appena la lingua latina
scritta prese forma stabile, e acquistò [859]perfezione, si allontanò
dalla parlata più di quello che mai facesse lingua colta del mondo; pose e creò
una somma distinzione fra la lingua degli scrittori, e quella del popolo; si
allontanò quanto mai si possa dire dall’andamento e struttura naturale e comune
e universale del discorso (senza però opporsi alla natura): e per tutte queste
ragioni la lingua latina, non ostante l’estesissima diffusion della nazione,
divenne la meno adattata alla universalità che mai si vedesse: e non ottenne,
seppur vogliamo credere o dire che mai l’ottenesse, questa universalità, se non
quando fu imbarbarita; e perduta la sua proprietà, la lingua scritta si confuse
un’altra volta colla parlata, prese tante forme e caratteri, quanti popoli e
scrittori l’adoperarono, e divenne piuttosto una famiglia di lingue tutte
barbare, che una lingua universale nè colta. Il che presto accadde, e durò fino
al nascere [860]delle sue figlie, o piuttosto fino al crescere che
queste fecero, e al separarsi da lei, perchè per lungo tempo (siccome accade in
tutte le lingue figlie) non si poterono considerare se non come parte di quella
famiglia di lingue barbare contenute nella latina, smembrandosi questa e
facendosi in brani, come il grande imperio della sua nazione, e
contemporaneamente al di lui misero diflusso.
Del
resto la lingua latina scritta ne’ primi veri e formati classici di essa, fu
ridotta a tale artifizio, squisitezza, tortuosità, intrecciatura, composizione,
lavoro, circuito, tessitura di periodi, obliquità di costruzione ec.; acquistò
subito così stretta proprietà di modi, di frasi, di voci, proprietà inviolabile
senza offesa formale della lingua; tanto precisa distinzione nell’uso de’ suoi
sinonimi, ossia delle innumerabili voci destinate alla significazione delle nuances di uno stesso oggetto; che quella lingua contenne il più di eleganza arbitraria
che mai si vedesse, fu opera espressa dello scrittore più che qualunque altra;
abbisognò di sì [861]profonda, sottile, minuta, esatta, e determinata
cognizione non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a
volerla trattare senza offendere la sua sì propria e individuale e arbitraria
altrettanto che definita proprietà; che allontanandosi estremamente dal
volgare, e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la parlata, s’impossibilitò
ancora, sì per questa, sì per quelle ragioni, alla universalità. Alcuni
scrittori latini, che anche nel tempo della perfezionata loro lingua letterata,
si accostarono un poco più degli altri ai loro antichi scrittori, o al popolo,
e conservarono maggiormente l’antico carattere della lingua; si accostarono
altresì più degli altri agli ottimi greci, furono più semplici, più facili e
piani, meno contorti e lavorati ec. e si avvicinarono ancora al genio futuro
della lingua italiana. Tali furono Cesare, Cornelio Nipote, e sopra tutti
Celso, del quale vedi quello che ho notato altrove, [862]della gran
somiglianza che ha, sì col greco, sì massimamente coll’italiano, tanto nell’andamento,
come nelle minute forme, frasi, voci. E dovunque si trova nei latini scrittori,
un tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che non fu mai proprio
della loro letteratura (eccetto i primi e non perfetti scrittori); si trova
altresì maggiore e notabile somiglianza col carattere della lingua greca, e
della nostra, e quindi anche del volgare latino, da cui la nostra è derivata, e
a cui non dubito che Celso non si accostasse notabilmente, e più che ogni altro
Classico conosciuto del secolo d’oro o d’argento. Tuttavia anche in questi
scrittori medesimi, si trova sempre un’aria di maggior coltura, una lingua più
lavorata, più nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella degli
ottimi greci, anzi in tal grado che non è possibile mai di confonderli con
questi. E certo quel candore, quella nuda venustà de’ greci, e anche [863](ma
quanto alla sola lingua) de’ nostri trecentisti, non fu mai propria della
scrittura e letteratura latina, se non forse della primitiva. E verisimilmente
non la comportava il carattere della nazione romana, assai più grave che
graziosa, e quantunque naturale e semplice anch’essa (come tutte le antiche,
non ancora, o non del tutto corrotte, e massime come tutte le nazioni libere e
forti e grandi) tuttavia, padrona piuttosto della natura, di quello che amante
e vagheggiatrice, come la nazione greca.
Come la
proprietà delle parole è ben altro che la secchezza e nudità di ciascuna, così
anche la semplicità e naturalezza e facilità della struttura di una lingua e di
un discorso, è ben altro che l’aridità e geometrica esattezza di esso. Così
distinguete il carattere dell’ottima e antica scrittura greca da quello della
moderna e riformata francese. Così quello dell’ottima e antica e propria lingua
e scrittura italiana, sì da quello della [864]francese, sì da quello
dell’odierna italiana. La quale quando anche non fosse barbara per le parole,
modi ec. è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell’andamento e del
carattere. Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente all’essere
del tutto straniera e francese, e diversa dall’indole della nostra lingua; ben
altra cosa che lo straniero de’ vocaboli o frasi, le quali ancorchè straniere
non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta di barbarie; bensì l’indole
straniera in qualunque lingua è sostanzialmente barbara, e la vera cagione
della barbarie di una lingua, che non può non esser barbara, quando si
allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere e dall’indole sua. E
tanto più barbaro è l’odierno italiano scritto, quanto il sapore italiano di
certi vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la cui italianità
risalta e dà negli occhi; contrasta colla innazionalità ed anche coll’assoluta
differenza del carattere totale della scrittura.
[865]Lodo che si distornino gl’italiani
dal cieco amore e imitazione delle cose straniere, e molto più che si
richiamino e invitino a servirsi e a considerare le proprie; lodo che si
proccuri ridestare in loro quello spirito nazionale, senza cui non v’è stata
mai grandezza a questo mondo, non solo grandezza nazionale, ma appena grandezza
individuale; ma non posso lodare che le nostre cose presenti, e parlando di
studi, la nostra presente letteratura, la massima parte de’ nostri scrittori,
ec. ec. si celebrino, si esaltino tutto giorno quasi superiori a tutti i sommi
stranieri, quando sono inferiori agli ultimi: che ci si propongano per modelli;
e che alla fine quasi ci s’inculchi di seguire quella strada in cui ci
troviamo. Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di
nazione, il primo nostro moto dev’essere, non la superbia nè la stima delle
nostre cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare
strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo [866]mai
nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e
fingere le presenti è conforto all’ignavia, e argomento di rimanersi contenti
in questa vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad alimentare e
confermare e mantenere quella miseria di giudizio, o piuttosto quella
incapacità d’ogni retto giudizio, e mancanza d’ogni arte critica, di cui
lagnavasi l’Alfieri (nella sua vita) rispetto all’Italia, e che oggidì è così
evidente per la continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei
pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o
negati, o biasimati.
(24.
Marzo 1821.)
Che vuol
dire che i così detti barbari, o popoli non ancora arrivati se non ad una mezza
o anche inferiore civiltà, hanno sempre trionfato de’ popoli civili, e del
mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i greci de’ Persiani già corrotti, i
Romani de’ greci giunti al colmo della civiltà, i settentrionali de’ Romani
nello [867]stesso caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono
grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le
forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e
l’impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare non è proprio nè
facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è sempre
signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si
vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e
scopo agiscano. Non dubito di pronosticarlo. L’Europa, tutta civilizzata, sarà
preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e
quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad
equilibrare. Ma finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni
nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi
illusioni, i popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son
tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non
avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e se sarà
possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta al naturale, cioè
la strada dell’universale corruzione come ne’ bassi tempi; o io non so
pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. Il mondo allora comincerà
un altro andamento, e quasi un’altra essenza ed esistenza.
(24.
Marzo 1821.)
[868]Quella sentenza che gli uomini sono
sempre i medesimi in tutti i tempi e paesi, non è vera se non in questo senso.
I periodi che l’uomo percorre, e quelli di ciascuna nazione paragonati insieme,
come i periodi de’ tempi fra loro, sono sempre appresso a poco uguali o
somigliantissimi; ma le diverse epoche che compongono questi periodi, sono fra
loro diversissime, e quindi anche gli uomini di quest’epoca, rispetto a quelli
di quell’altra, e questa nazione oggi trovandosi in un’epoca, rispetto a quell’altra
nazione che si trova in altra epoca. Come chi dicesse che l’orbita de’ pianeti
è sempre la stessa, non però verrebbe a dire che il punto, l’apparenza in cui
essi si trovano, fosse sempre una. I periodi della società si rassomigliano in
tutti i tempi. Questo è un vero assioma. E l’eccessiva civiltà avendo sempre
condotto i popoli alla barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi
partecipato di essa; così accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso
per la prima volta. Del resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi,
a non volerlo intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o
ridicola. Falsa se si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora
sviluppate, ora [869]no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così
sepolte nel fondo dell’animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai filosofi
(come p.e. la sensibilità odierna negli antichi, e peggio ne’ primitivi, la
ragione ec. ec.), hanno diversificato la faccia del mondo in maniera infinita,
e in moltissime guise. Domando io se questi italiani d’oggi sono o paiono i
medesimi che gli antichi; se il secolo presente si rassomiglia a quello delle
guerre Persiane, o peggio, della Troiana. Domando se i selvaggi si
rassomigliano ai francesi, se Adamo ci riconoscerebbe per uomini, e suoi
discendenti ec. Ridicola se non vuole significare fuorchè questo, che l’uomo fu
sempre composto degli stessi elementi e fisici e morali in tutti i tempi. (ma
elementi diversamente sviluppati e combinati, come i fisici, così i morali).
Cosa che tutti sanno. Le qualità essenziali non sono mutate, nè mutabili, dal
principio della natura in poi, in nessuna creatura, bensì le accidentali, e
queste per la diversa disposizione delle essenziali, che partorisce una
diversità [870]rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle
cose, che sole naturalmente, possono variare. Questa proposizione dunque in
quest’ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il
sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una fisica
trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com’è conforme all’opinione
universale).
Intorno
alla ragione proclamata, e alla tentata geometrizzazione del mondo, nella
rivoluzione francese v. anche parecchie cose notabili, e qualche notizia e
fatto nell’Essai sur l’indifférence en matière de Religion nell’ultima
parte del capo 10. (che abbraccierà una 20na di pagg.) dove riduce
le dottrine che ha esposte, all’esempio formale della rivoluzione francese, da
quel periodo che incomincia Esisteva, sono già trent’anni, una nazione
governata da una stirpe antica di re ec. sino alla fine del capo.
Alla
p.838. principio. Osservate ancora [871]quanti di quei mestieri che servono
alla preparazione di cose anche usualissime, e stimate necessarie alla vita
oggidì, sieno per natura loro nocivi alla salute e alla vita di coloro che gli
esercitano. Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto alla
sussistenza o al comodo di una specie, la distruzione o il danno di un’altra
specie, o parte di lei, questo è vero, ed evidente nella storia naturale. Ma
che abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della
stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell’altra parte
(certo niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte
sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri,
ancorchè usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita, non
saranno barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che li
richiede e li suppone, ancorchè comoda, e stimata civilissima, non verrà dunque
ella pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara?
Alla
p.499. fine. A quello che ho detto della derivazione di favellare ec. da
fabulari ec. aggiungete lo spagnuolo hablar, habla ec. cioè fablar,
[872]fabla ec. da fabula ec. secondo il costume spagnuolo
di scambiare la f nell’h, come in herir per ferir,
in hembra per fembra, in hazer o hacer per facer,
e mille altre parole.
(30.
Marzo 1821.)
L’amor
proprio dell’uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di
preferenza. Cioè l’individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si
preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può,
dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo, e l’odio degli altri
è una conseguenza necessaria ed immediata dell’amore di se stesso, il quale
essendo innato, anche l’odio degli altri viene ad essere innato in ogni
vivente. V. p.926. capoverso 1.
Dal che
segue per primo corollario, che dunque nessun vivente, è destinato precisamente
alla società, il cui scopo non può essere se non il ben comune degl’individui
che la compongono: cosa opposta all’amore esclusivo e di preferenza, che
ciascuno inseparabilmente [873]ed essenzialmente porta a se stesso, ed
all’odio degli altri, che ne deriva immediatamente, e che distrugge per essenza
la società. Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver
considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non simile più o
meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società
accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d’interessi, e sciolta
col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa o vogliamo dir larga e poco
ristretta, cioè di tal natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo
in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl’interessi o
inclinazioni particolari in quello che si oppongono ai generali. Cosa che
accade nelle società de’ bruti, e non può mai accadere in una società, così
unita, ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, come è quella degli
uomini.
È cosa
notabilissima che la società tanto più per una parte si è allargata, quanto più
si è ristretta, dico fra gli uomini. E quanto più si è ristretta, tanto più è
mancato [874]il suo scopo, cioè il ben comune, e il suo mezzo, cioè la
cospirazione di ciascuno individuo al detto fine. Conseguenza naturale, ma
niente osservata, del corollario precedente, e della proposizione da cui questo
deriva. Osservate.
Ridotto
l’uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono
larghissime. Poco ristrette fra gl’individui di ciascuna società, e scarse
nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le
diverse società. Ma in questo modo il ben comune di ciascuna società era
effettivamente cercato dagl’individui, perchè da un lato non pregiudicava, dall’altro
favoriva, anzi spesso costituiva il ben proprio. E il ben comune risultava
effettivamente da dette società, simili più o meno alle naturali, e conforme
alle considerazioni fatte nel precedente corollario. Le società si sono
ristrette di mano in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali; e
ristrette per due capi: 1. tra gl’individui di una stessa società: 2. tra le
diverse società. Oggi questa ristrettezza è al colmo in tutti due questi capi.
Ciascuna società è così vincolata 1. dall’obbedienza che deve per tutti i
versi, in tutte le minuzie, con ogni matematica esattezza al suo capo, o
governo, 2. dall’esattissimo [875]regolamento, determinazione,
precisazione di tutti i doveri e osservanze, morali, politiche, religiose,
civili, pubbliche, private, domestiche ec. che legano l’individuo agli altri
individui; è, dico, tanto vincolata, e stretta e circoscritta, che maggior
precisione e strettezza non si potrebbe forse immaginare per questa parte. Le
diverse società poi, sono così strette fra loro (dico le civili massimamente,
ma non solamente), che l’Europa forma una sola famiglia, tanto nel fatto,
quanto rispetto all’opinione, e ai portamenti rispettivi de’ governi, delle
nazioni, e degl’individui delle diverse nazioni. In questo momento poi, l’Europa
è piuttosto una nazione governata da una dieta assoluta; o vogliamo dire
sottoposta ad una quasi perfetta oligarchia; o vogliamo dire comandati da
diversi governatori, la cui potestà e facoltà deriva e risiede nel corpo intero
di essi ec. di quello che si possa chiamare composta di diverse nazioni.
Che è
derivato e deriva da tutto ciò? [876]1. L’incamminamento espresso della
società ad un senso tutto e diametralmente opposto al sopraddetto, cioè ad
allargarsi tanto anzi sciogliersi per una parte, ch’è la più importante, quanto
per l’altra si stringe. Cosa ch’è sempre accaduta dal principio della società
in poi, in proporzione del maggiore stringimento di essa. Considerate le
antiche lassissime società, e vedrete che amor di patria, ossia di essa
società, si trovava in ciascun individuo, che calore in difenderla, in
proccurare il suo bene, in sacrificarsi per gli altri ec. Venite giù di mano in
mano, e troverete le società sempre più ristrette e legate in proporzione dell’incivilimento.
Ma che? Osservate i nostri tempi. Non solo non c’è più amor patrio, ma neanche
patria. Anzi neppur famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla
solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua società. Perchè
trovandosi in gravissimo conflitto gl’interessi e le passioni, a causa della
strettezza e vicinanza, svanisce l’utile della società in massima parte; resta
il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l’uno individuo, e gl’interessi [877]suoi,
nocciono a quelli dell’altro, e non essendo possibile che l’uomo sacrifichi
intieramente e perpetuamente se stesso ad altrui, (cosa che ora si
richiederebbe per conservare la società) e prevalendo naturalmente l’amor
proprio, questo si converte in egoismo, e l’odio verso gli altri, figlio
naturale dell’amor proprio, diventa nella gran copia di occasioni che ha, più
intenso, e più attivo. 2. Si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo
scopo della società, ch’è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui
se n’è perduto il mezzo, cioè la cospirazione degl’individui al detto fine.
Dilatiamo
ora queste considerazioni, e seguendo ad applicarle ai fatti, ed alla storia
dell’uomo, paragoniamo principalmente gli antichi coi moderni, cioè la società
poco stretta e legata, e poco grande, cioè di pochi, con la società
strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi.
Ho detto
che l’amor proprio è inseparabile [878]dall’uomo, e così l’odio verso
gli altri ch’è inseparabile da esso, e che per conseguenza esclude
primitivamente ed essenzialmente la stretta comunione e società sì degli
uomini, che degli altri viventi. Ma siccome l’amor proprio può prendere
diversissimi aspetti, in maniera, ch’essendo egli l’unico motore delle azioni
animali, esso stesso che è ora egoismo, un tempo fu eroismo, e da lui derivano
tutte le virtù non meno che tutti i vizi; così nelle antiche e poche ristrette
società (come pure accade anche oggi in parecchie delle popolazioni selvagge
che si scoprono, o quando furono scoperte, come alcune Americane) l’amor
proprio fu ridotto ad amore di quella società dove l’individuo si trovava, ch’è
quanto dire amor di corpo o di patria. Cosa ben naturale, perchè quella società
giovava effettivamente all’individuo, e tendeva formalmente al suo scopo vero e
dovuto, così che l’individuo se le affezionava, e trasformando se stesso in
lei, trasformava l’amor di se stesso nell’amore di lei. Come appunto accade nei
partiti, nelle congregazioni, negli ordini ec. massime quando sono nel
primitivo [879]vigore, e conservano la prima lor forma. Nel qual tempo
gl’individui che compongono quel tal corpo, fanno causa comune con lui, e
considerano i suoi vantaggi, gloria, progressi, interessi ec. come propri: e
quindi amandolo, amano se stessi, e lo favoriscono come se stessi. Che questo
in ultima analisi è l’unico principio dell’amor di corpo, di patria, di
Religione, universale o dell’umanità, e di qualunque possibile amore in
qualunque animale.
Dunque l’amor
proprio si trasformava in amor di patria. E l’odio verso gli altri individui?
Non già spariva, ch’è sempre ed eternamente inseparabile dall’amor proprio, e
quindi dal vivente: ma si trasformava in odio verso le altre società o nazioni.
Cosa naturale e conseguente, se quella tal società o patria, era per ciascuno
individuo come un altro se stesso. Quindi desiderio di soverchiarle, invidia de’
loro beni, passione di render la propria patria signora delle altre nazioni,
ingordigia altresì de’ loro beni e robe, e finalmente odio ed astio dichiarato;
tutte cose che nell’individuo trovandosi verso gli altri individui, lo rendono
per natura, [880]incompatibile colla società.
Dovunque
si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero: dovunque
lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama. Lo vediamo anche
presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell’antico patriotismo.
Ma quest’odio
accadeva massimamente nelle nazioni libere. Una nazione serva al di dentro, non
ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perchè l’individuo non
fa parte della nazione se non materialmente. L’opposto succede nelle nazioni libere,
dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt’uno colla patria,
odiava personalmente gli stranieri sì in massa, come uno per uno.
Con
queste osservazioni spiegate la gran differenza che si scorge nella maniera
antica di considerare gli stranieri, e di operare verso le altre nazioni,
paragonata colla maniera moderna. Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l’opinione,
l’amore, il favore degli antichi. E parlo degli antichi nelle nazioni più colte
e civili, e in queste, degli uomini più grandi, colti, ed anche illuminati e
filosofi. Anzi la filosofia di allora (che dava molto più nel segno della
presente) insegnava e inculcava l’odio nazionale e individuale dello straniero,
come di prima necessità alla conservazione [881]dello stato, della
indipendenza, e della grandezza della patria. Lo straniero non era considerato
come proprio simile. La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della
giustizia, dell’onesto, delle virtù, dell’onore, della gloria stessa, e dell’ambizione;
delle leggi ec. tutto era rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e
questa sovente non si estendeva più che una città. Il diritto delle genti non
esisteva, o in piccolissima parte, e per certi rapporti necessari, e dove il
danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.
La
nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell’interno, e rispetto a’ suoi,
vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso questi ella
non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli
Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo
straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte
le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di
Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell’apparenza
ingiuste, co’ forestieri. Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e
congruenza, questa opinione, che non sia peccato l’ingannare, o far male
comunque all’esterno, che chiamano (e specialmente il Cristiano) Goi ywg [882]ossia gentile,
e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro: (v. il Zanolini,
il quale dice che, nel plurale però si deve intendere, chiamano oggi i
Cristiani \ywg goiìm) riputando peccato, solamente il
far male a’ loro nazionali.
E con
queste osservazioni si deve spiegare una cosa che può far maraviglia nella
Ciropedia. Dove Senofonte vuol dare certamente il modello del buon re,
piuttosto che un’esatta istoria di Ciro. E nondimeno questo buon re, dopo
conquistato l’impero Assirio, diventa modello e maestro della più fina, fredda,
e cupa tirannide. Ma bisogna notare che questo è verso gli Assiri, laddove
verso i suoi Persiani, Senofonte lo fa sempre umanissimo e liberalissimo. Ma
egli stima che sia tanto da buon re l’opprimere lo straniero, e l’assicurarsi
in tutti i modi della sua soggezione, come il conservare una giusta libertà a’
nazionali. Senza la qual distinzione e osservazione, si potrebbe quasi
confondere Senofonte con Machiavello, e prendere un grosso abbaglio intorno
alla sua vera intenzione, e all’idea ch’egli ebbe del buon Principe. Nel qual
proposito osserverò che la regola e il metodo di Ciro (o di Senofonte) di
preferire in tutto e per tutto i Persiani ai nuovi sudditi, e dichiarare per
tutti i versi, quella, [883]nazion dominante, e queste, soggette e
dipendenti, non fu seguito da Alessandro, il quale anzi a costo d’inimicarsi i
Macedoni, pare che tra’ suoi sudditi di qualunque nazione volesse stabilire una
perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i conquistati adottando le vesti e
le usanze loro. Il suo scopo fu certo quello di conservarli piuttosto coll’amore
che col timore, e colla forza: e non li stimò schiavi (secondo il costume di
quei tempi), ma sudditi. E quanto ai Romani, vedi in questo particolare la fine
del Capo 6. di Montesquieu, Grandeur etc. Oltre che i Romani accordando
la cittadinanza a ogni sorta di stranieri conquistati, gli agguagliavano più
che mai potessero ai cittadini e compatrioti: ma questa cosa non riuscì loro
niente bene, com’è noto, e come ho detto in altro pensiero p.457.
Tornando
al proposito, Platone nella Repubblica l.5. (vedilo) dice: i Greci non
distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le
campagne, nè bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai
Barbari. E le Orazioni d’Isocrate tutte piene di misericordia verso i mali de’
Greci, sono spietate verso i barbari, o Persiani, ed esortano continuamente la
nazione e Filippo, a sterminarli. Sono notabilissime in questo proposito le sue
due Orazioni Panhgurikòw, e pròw FÛlippon, dove inculca di proposito l’odio
de’ Barbari nello stesso tempo e per le stesse ragioni che l’amore dei greci, e
come conseguenza di questo. V. specialmente quel luogo del panegirico, che
comincia EçmolpÛdai d¢ kaÜ K®rukew, e finisce tÇn aétÇn ¦rgvn ¤keÛnoiw ¤piJumÇmen, dove parla di Omero e de’
Troiani, p.175-176. della ediz. del Battie, Cambridge 1729. molto dopo la metà
dell’orazione ma ancor lungi dal fine. E questa opposizione di misericordia e
giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il [884]carattere
costante di tutti gli antichi greci e romani, e massime de’ più cittadini, e
assolutamente de’ più grandi e famosi: nominatamente poi degli scrittori, anche
i più misericordiosi, umani e civili.
È
insigne a questo proposito un luogo di Temistio nell’Orazione scoperta dal Mai pròw tow aÞtiasam¡nouw ¤pÜ tÒ d¡jasJai t¯n Žrx¯n In eos a quibus ob praefecturam
susceptam fuerat vituperatus cap.25. Eccolo KaÜ toèton n tiw ¤n dÛkú proseÛpoi tòn fil‹nJrvpon ŽlhJÇw. TÇn d¢ llvn Kèron m¢n filop¡rshn kaloÝ, Žll' oé fil‹nJrvpon. 'Al¡jandron ¢ filomakedñna, Žll' oé fil‹nJrvpon: AghsÛlaon d¢ fil¡llhna, kaÜ tòn Sebastòn filorÅmaion, llon d¢ llou g¡nouw µ ¦Jnouw ¤rast¯n o kaÜ basileçw ¤nomÛsJh. (regium dominatum exercuit. Maius.) fil‹nJrvpow d¢ plÇw kaÜ basileçw plÇw, õ toèto zhtÇn mñnon eÞ nJrvpow õ xr®zvn¤pieikeÛaw: (qui clementia indiget. Maius.) kaÜ m¯ eÞ SkæJhw µ Masag¡thw, µ tŒ kaÜ tŒ prohdÛkhse (Mediol. regiis typis. 1816.
inventore et interprete Angelo Maio p.66. V. tutto quel capo, e parte del
resto, che tutto fa a questo proposito, ma, il luogo riferito principalmente, e
dà gran luce e tutta appropriata, al mio discorso. V. anche l’oraz.10. di
Temistio dell’ediz. Harduin. p.132. B-C. e l’Oraz. 1. p.[885]6. B. citt.
qui in margine dal Mai, come contenenti luoghi paralleli al riportato.) Così
egli lodando Teodosio magno. E infatti la filantropia, o amore universale e
della umanità, non fu proprio mai nè dell’uomo nè de’ grandi uomini, e non si
nominò se non dopo che parte a causa del Cristianesimo, parte del naturale
andamento dei tempi, sparito affatto l’amor di patria, e sottentrato il sogno
dell’amore universale, (ch’è la teoria del non far bene a nessuno) l’uomo non
amò veruno fuorchè se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar
molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea
naturalmente essere (com’è oggi) meno odioso, perchè si oppone meno a’ suoi
interessi, e perch’egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i
lontani, quanto i vicini.
Da tutte
queste osservazioni e fatti, risulta un’altra osservazione e un altro fatto
conosciutissimo, e caratteristico dell’antichità; o piuttosto risulta la
spiegazione di questo fatto. Perchè amando l’individuo la patria sua, e
conseguentemente odiando gli stranieri, ne seguiva che le guerre fossero sempre
nazionali. E tanto più accanite, quanto l’individuo era da ambe le parti più
infiammato della sua causa, cioè dell’amor patrio. Massimamente dunque lo erano
quelle de’ popoli liberi, o fatte a un popolo libero, [886]per la stessa
ragione, per cui, come ho detto, un popolo libero ama maggiormente la patria, e
maggiormente odia lo straniero. Così che sì la nazione e l’armata straniera, sì
l’individuo straniero, era come nemico privato dell’individuo che combatteva
pel suo popolo libero, e per la sua patria. E questa è una delle principali e
più manifeste ragioni per cui i popoli più amanti della patria loro, e fra
questi i liberi, sono stati sempre i più forti, i più formidabili al di fuori,
i più bellicosi, i più intrepidi, i più atti alle conquiste, ed effettivamente,
per così dire, i più conquistatori.
Dall’esser
le guerre, nazionali, dovea risultare quest’altro effetto, che avea luogo
realmente fra gli antichi, ed ha luogo in tutte le nazioni selvagge, e
proporzionatamente in quelle che conservano maggiore spirito di nazione, e
maggior primitivo, come gli Spagnuoli. Cioè le guerre dovevano essere, a morte,
e senza perdono (giacchè tutti e ciascuno erano nimici fra loro), senza
distinzione ec. E l’effetto della vittoria doveva essere il cattivare intieramente
non solo il governo, ma la nazione intiera; (come si vide principalmente in
Asia a tempo de’ monarchi Assiri nelle lor guerre co’ Giudei ec. e al tempo di
Tito Vespasiano) [887]o certo spogliarla de’ costumi, leggi, governatori
propri, dei tempii, de’ sepolcri, della roba, del danaio, delle proprietà,
delle mogli, dei figli ec. e ridurla se non in ischiavitù, come si costumò
antichissimamente, spogliando il vinto anche del suo paese; certo però in
servitù: e considerarla come nazione dipendente, soggiogata, non partecipe di
nessun vantaggio della nazion dominante, e non appartenente a lei, se non come
suddita, nè avente con lei altro di comune, nè diritti, nè ec. come se fosse di
altra razza d’uomini. E conseguentemente e congruentemente: perchè insomma
tutta quanta la nazione essendo stata ed essendo nemica del vincitore, tutta si
trattava come nemica vinta e domata, e tutta era preda del nemico trionfante.
Quindi la disperazione delle guerre l’ostinazione delle resistenze le più
inutili, lo scannarsi scambievolmente le popolazioni intiere, piuttosto che
aprir le porte al nemico, perchè in fatti il vinto andava nelle mani e nell’assoluta
balìa di un nemico mortale, com’egli lo era del vincitore. Quindi anche il
combattere le nazioni intere, e l’essere tutti soldati, quanti potevano portar
armi, e ciò sempre: cioè tanto in guerra quanto (se non in atto certo in
potenza e disposizione) nel tempo di pace. Perchè le nazioni, massime vicine,
erano sempre in istato di guerra, odiandosi tutte scambievolmente, e cercando l’una
di sorpassar l’altra in [888]qualunque modo per conseguenza necessaria
del vero amor patrio. (V. in questo proposito, se però vuoi, l’Essai sur l’indifférence
en matière de Religion ch.10. dove discorre di proposito in questa materia,
sebbene in senso opposto al mio, durante 9. pagg. della traduz. di Bigoni cioè
dalla p.160. alla 169. ossia dal periodo che comincia: Ma questo non è tutto
ancora. Quando i rapporti sociali ec. sino a quello che incomincia: INCEDO
PER IGNES. Egli trova anche una conformità di quest’ultimo costume nella
moltitudine delle armate odierne, che fa derivare dalla nazionalità delle
guerre di questi ultimi anni. Osservo però che questo derivò in principio dalla
sola ambizione e dispotismo di Luigi 14.)
Conchiudo
che l’indipendenza, la libertà, l’uguaglianza di un popolo antico, non solo non
importava l’indipendenza, la libertà, l’uguaglianza degli altri popoli,
rispetto a lui, e per quanto era in lui; ma per lo contrario importava la
soggezione e servitù degli altri popoli, massime vicini, e l’obbedienza de’ più
deboli. E un popolo libero al di dentro era sempre tiranno al di fuori, se
aveva forze per esserlo, e questa forza nasceva sovente dalla sua libertà. Nel
modo stesso che un principe, per esser egli indipendente e libero, e non aver
legami nè ostacoli alla sua volontà, non perciò lascia di tiranneggiare il suo
popolo. Anzi quanto più è geloso della sua libertà, tanto più ne toglie a’
sudditi, o a’ più deboli di lui. Così quanto [889]più una nazione
sentiva ed amava se stessa, che avviene massimamente ai popoli liberi, tanto
più era nemica delle straniere, e desiderosa di elevarsi sopra loro, di farsene
ubbidire, e conquistate, opprimerle; tanto più invidiosa de’ loro beni, ingorda
del loro ec. effetto naturale dell’amor nazionale, come lo è dell’amor proprio
rispetto agl’individui: essendo insomma l’amor patrio, non altro che egoismo
nazionale, e rispetto alla nazione intera, egoismo della nazione. E così dite
di qualunque amore o spirito di corpo, di parte ec. Quella nazione dove regna
fortemente e vivacemente ed efficacemente l’amor nazionale, è come un grande
individuo: e alla maniera dell’individuo, amando se stessa, si ama di
preferenza, e desidera, e cerca di superare le altre in qualunque modo. E
quanto all’essere un popolo tanto più tiranno di fuori, quanto più geloso della
libertà propria, e nemico della tirannia di dentro, v. l’esempio moderno, che
pare all’autore dell’Essai ec. di vedere nell’Inghilterra rispetto a’
suoi stabilimenti fuor d’Europa. Vedilo, dico, al luogo citato nella pagina
precedente.
Questi
quadri paiono non solamente disgustosi, anzi terribili, ma tali che nessun
male, nessun cattivo stato si possa paragonare col detto stato delle nazioni
antiche. E ciò avverrà massimamente a quelli che considerano la vita come un
bene per se stessa, qualunque ella sia. Ma passiamo ora ai moderni, e
consideriamo il rovescio della medaglia.
1. L’uomo
non si potrà mai (come nessun vivente) spogliare dell’amor di se stesso, nè
questo dell’odio verso [890]altrui. Riconcentrato il potere, tolto agl’individui
quasi del tutto il far parte della nazione, di più, spente le illusioni, l’individuo
ha trovato e veduto il ben comune come diviso e differente dal ben proprio.
Dovendo scegliere, non ha esitato a lasciar quello per questo. E non poteva
altrimenti, essendo uomo, e vivendo. Sparite effettivamente le nazioni, e l’amor
nazionale, s’è spento anche l’odio nazionale, e l’essere straniero non è più
colpa agli occhi dell’uomo. S’è perciò spento l’odio verso altrui, l’amor
proprio? allora si spegnerà quando la natura farà un altro ordine di cose e di
viventi. La fola dell’amore universale, del bene universale, col qual bene ed
interesse, non può mai congiungersi il bene e l’interesse dell’individuo, che
travagliando per tutti non travaglierebbe per se, nè per superar nessuno,
come la natura vuol ch’ei travagli; ha prodotto l’egoismo universale. Non si
odia più lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l’amico, il
padre, il figlio; ma l’amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la
giustizia, l’amicizia, l’eroismo, ogni virtù, fuorchè l’amor di se stesso. Non
si hanno più nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti quanti son
gli uomini; ma non si hanno più amici di sorta alcuna, nè doveri se non verso
se stesso. Le nazioni sono in pace al di fuori? [891]ma in guerra al di
dentro, e in guerra senza tregua, e in guerra d’ogni giorno, ora, momento, e in
guerra di ciascuno contro ciascuno, e senza neppur l’apparenza della giustizia,
e senz’ombra di magnanimità, o almeno di valore, insomma senz’una goccia di
virtù qualunque, e senz’altro che vizio e viltà; in guerra senza quartiere; in
guerra tanto più atroce e terribile, quanto è più sorda, muta, nascosta; in
guerra perpetua e senza speranza di pace. Non si odiano, non si opprimono i
lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a tutto
potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri; e la
guerra essendo fra persone che convivono, non c’è un istante di calma, nè di
sicurezza per nessuno. Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si ha
co’ lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o
quella ch’essendo co’ vicini si esercita sempre e del continuo, perchè continue
sono le occasioni? Quale è più contraria alla natura, alla morale, alla
società? Gl’interessi de’ lontani non sono in tanta opposizione coi nostri (e
per quanto lo sono, si odia adesso il lontano, come e più che anticamente,
bensì meno apertamente e più vilmente). Ma gl’interessi de’ vicini essendo co’
nostri in continuo urto, la guerra più terribile è quella che deriva dall’egoismo,
e dall’odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, [892]ma
verso il concittadino, il compagno ec.
2. Per
qual cagione l’amore universale sia un sogno, non mai realizzabile, risulta
dalle cose dette in questo discorso, e l’ho esposto già in altri pensieri. Ora
non potendo il vivente senza cessar di vivere, spogliarsi nè dell’amor proprio,
nè dell’odio verso altrui, resta che queste passioni prendano un aspetto,
quanto si può migliore; resta che l’amor proprio dilati quanto più può il suo
oggetto (ma non può troppo dilatarlo senza perdersi il se stesso ch’è
indivisibile dall’uomo, e quindi ricadere inevitabilmente nell’amor di se
solo); e che l’odio verso altrui si allontani quanto più si può, cioè scelga
uno scopo lontano. Questo avviene per la prima parte, quando l’individuo trova
una comunione e medesimezza d’interesse con quelli che lo circondano; e per la
seconda, quando egli non trova la principale opposizione a questo interesse se
non ne’ lontani. Ecco dunque l’amor patrio, e l’odio degli stranieri. E per
tutte queste ragioni, io dico, che stante l’amor proprio, e l’odio naturale
dell’uomo verso altrui, passioni che lo rendono per natura indisposto alla
società, una società non può sussistere veramente, cioè essere effettivamente
ordinata al suo scopo ch’è il ben comune di tutta lei, se le dette passioni non
prendono il detto aspetto; cioè: la società non può sussistere senz’amor
patrio, ed odio degli stranieri. Ed essendo l’uomo essenzialmente ed [893]eternamente
egoista, la società per conseguenza, non può essere ordinata al ben comune,
cioè sussistere con verità, se l’uomo non diventa egoista di essa società, cioè
della sua nazione o patria, e quindi naturalmente nemico delle altre. E per
tutte queste ragioni, ed altre che ho spiegato altrove, dico, e segue
evidentemente, che la società ed esisteva fra gli antichi, ed oggi non esiste.
3. Come
senz’amor patrio non c’è società, dico ancora che senz’amor patrio non c’è
virtù, se non altro, grande, e di grande utilità. La virtù non è altro in
somma, che l’applicazione e ordinazione dell’amor proprio (solo mobile
possibile delle azioni e desiderii dell’uomo e del vivente) al bene altrui,
considerato quanto più si possa come altrui, perchè in ultima analisi, l’uomo
non lo cerca o desidera, nè lo può cercare o desiderare se non come bene
proprio. Ora se questo bene altrui, è il bene assolutamente di tutti, non
confondendosi questo mai col ben proprio, l’uomo non lo può cercare. Se è il
bene di pochi, l’uomo può cercarlo, ma allora la virtù ha poca estensione, poca
influenza, poca utilità, poco splendore, poca grandezza. Di più, e per queste
stesse ragioni, poco eccitamento e premio, così che è rara e difficile; giacchè
siamo da capo, mancando allora o essendo poco efficace lo sprone che muove l’uomo
ad abbracciar la virtù, cioè il ben proprio. Talchè anche per questo capo [894]è
dannosa la soverchia ristrettezza e piccolezza, o poca importanza e pregio
delle società, dei corpi, dei partiti ec. E riguardo all’altro capo, cioè la
poca utilità delle virtù che si rapportano al bene o agl’interessi qualunque di
pochi, o poco importanti ec. questa è la ragione per cui non sono lodevoli,
anzi spesso dannosi i piccoli corpi, società, ordini, partiti, corporazioni, e
l’amore e spirito di questi negl’individui. Giacchè le virtù e i sacrifizi a
cui questi amori conducono l’individuo, sono piccoli, ristretti, bassi, umili,
e di poca importanza, vantaggio, ed entità. In oltre nuocono alla società
maggiore, perchè siccome l’amor di patria produce il desiderio e la cura di
soverchiare lo straniero, così l’amore de’ piccoli corpi, essendo parimente di
preferenza, produce la cattiva disposizione degl’individui verso quelli che non
appartengono a quella tal corporazione, e il desiderio di superarli in
qualunque modo. Così che nasce la solita disunione d’interessi, e quindi di
scopo, e così queste piccole società, distruggono le grandi, e dividono i
cittadini dai cittadini, e i nazionali dai nazionali, restando tra loro la
società sola di nome. Dal che potete intendere il danno delle sette, sì di
qualunque genere, come particolarmente di queste famose moderne e presenti, le
quali ancorchè studiose o in apparenza, o, poniamo anche, in sostanza del bene
di tutta la patria, si vede per esperienza, che non hanno mai fatto alcun bene,
e sempre gran male, e maggiore ne farebbero, se arrivassero a prevalere, e
conseguire i loro intenti; e ciò per le dette ragioni, e perchè l’amor della
setta (fosse pur questa purissima) nuoce all’amore della nazione ec. V. p.1092.
principio. Resta dunque che l’egoismo sociale, abbia per oggetto una
società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere negl’inconvenienti
delle piccole, non sia tanto grande, che l’uomo per cercare il di lei bene, sia
costretto a perdere di vista se stesso; [895]il che egli non potendo
fare mentre vive, ricadrebbe nell’egoismo individuale. L’egoismo universale (giacchè anche questo non potrebb’essere altro che egoismo, come tutte le
passioni e tutti gli amori dei viventi) è contraddittorio nella sua stessa
nozione, giacchè l’egoismo è un amore di preferenza, che si applica a se
stesso, o a chi si considera come se stesso: e l’universale esclude l’idea
della preferenza. Molto più poi è stravagante l’amore sognato da molti
filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i viventi, e quanto si
possa, di tutto l’esistente: cosa contraddittoria alla natura, che ha congiunto
indissolubilmente all’amor proprio una qualità esclusiva, per cui l’individuo
si antepone agli altri, e desidera esser più felice degli altri, e da cui nasce
l’odio, passione così naturale e indistruggibile in tutti i viventi, come l’amor
proprio. Ma tornando al proposito, la detta società di mezzana grandezza, non è
altro che una nazione. Perchè l’amore delle particolari città native è dannoso
oggi, come l’amore de’ piccoli corpi, non producendo niente di grande, come non
dà eccitamento nè premio a virtù grandi; e d’altra parte, staccando l’individuo
dalla società nazionale, e dividendo le nazioni in tante parti, tutte intente a
superarsi l’una coll’altra, e quindi nemiche scambievoli. Del che non si può
dare maggior pregiudizio. Le città antiche, se anche erano piccole come le
moderne, e tuttavia servivano [896]di patria, erano però più
importanti assai, per la somma forza d’illusioni che vi regnava, e che
somministrando grandi eccitamenti, e premi grandi ancorchè illusorii, bastava
alle grandi virtù. Ma questa forza d’illusioni non è propria se non degli
antichi, che come il fanciullo, sapevano trar vita vera da tutto, ancorchè
menomo. La patria moderna dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la
comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per
patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è
la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà
virtù grande. Da tutto ciò deducete il gran vantaggio del moderno stato,
che ha tolto assolutamente il fondamento, anzi la possibilità della virtù,
certo della virtù grande, e grandemente utile; della virtù stabile e solida, e
che abbia una base e una fonte durevole e ricca.
4.
Lascio la gran vita che nasce dall’amor patrio, e in proporzione della sua
forza, ch’è massima ne’ popoli liberi, e che gli antichi godevano mediante
questo; e la morte del mondo, sparito che sia l’amor patrio, morte che noi
sperimentiamo da gran tempo.
5. Le
guerre moderne sono certo meno accanite delle antiche, e la vittoria meno
terribile e dannosa al vinto. Questo è naturalissimo. Non esistendo più
nazioni, [897]e quindi nemicizie nazionali, nessun popolo è vinto,
nessuno vincitore. Chi vince non vince quel tal popolo, ma quel tal governo. I
soli governi sono nemici fra loro. Dunque la vittoria non si esercita sopra la
nazione (la quale come l’asino di Fedro cambia solamente la soma, o l’asinaio);
ma sopra il solo governo. Una nazione conquistata perde il suo governo, e ne
riceve un altro che presso a poco è il medesimo. Non essendo nemica della
conquistatrice, non avendo avuto guerra con essa, nè questa con lei, partecipa
ai di lei vantaggi, alle cariche pubbliche ec. Non perde le proprietà, nè la
libertà civile, nè i costumi ec. (Alle volte non perderà neppure le sue leggi).
Ma come tutto il suo, non era suo, ma del suo padrone, così tutto questo, senza
nuovo danno de’ suoi individui, come presso gli antichi, passa di peso e senza
scomporsi ad essere di un altro padrone.
Anticamente
il privato perdeva individualmente le sue proprietà perchè individualmente ne
aveva. Ora non egli che non le ha individualmente, e non le può perdere, ma il
suo principe vinto perde tutte insieme le proprietà de’ suoi sudditi, ch’erano
generalmente ed unitamente sue; e questo per conseguenza accade senza
cangiamenti nello stato de’ particolari, e senza nuove violazioni de’ diritti
privati e individuali. S’ella diviene dipendente al di fuori, lo era già al di
dentro. La sua dipendenza non è nuova se non di nome, perchè la sua
indipendenza era pur tale. E se ora dipende dallo straniero, lo straniero è per
lei tutt’uno che il nazionale; perchè la nazione non esisteva neppur prima
della conquista; ed ella non amando se stessa, non avendo amor patrio, non odia
dunque lo straniero, se non come il nazionale, e come l’uomo odia l’altro uomo. Il diritto delle nazioni [898]è nato dopo che non vi sono
state più nazioni. Ella dunque gode gli stessi diritti, che godeva prima
della conquista, e gli gode ora come la conquistatrice. Quanto alle guerre,
elle non sono già nè meno frequenti, nè meno ingiuste delle antiche. Perchè la
sorgente delle guerre, che una volta era l’egoismo nazionale, ora è l’egoismo
individuale di chi comanda alle nazioni, anzi costituisce le nazioni. E
questo egoismo, non è nè meno cupido, nè meno ingiusto di quello. Dunque, come
quello, misura i suoi desiderii dalle sue forze; (spesso anche oltre le forze)
e la forza è l’arbitra del mondo oggidì, come anticamente, non già la
giustizia, perchè la natura degli uomini non si cambia, ma solo gli accidenti.
Questi che esagerano l’ingiustizia e frequenza delle guerre antiche prima del
Cristianesimo, del diritto delle genti, e del preteso amore universale; mostra
che abbiano bensì letto la storia antica, ma non quella de’ secoli Cristiani
fino a noi. Quella storia e questa presentano appuntino le stesse ingiustizie,
le stesse guerre, lo stesso trionfo della forza ec. nè il Cristianesimo ha
migliorato in ciò il mondo di un punto; colla differenza che allora le
esercitavano, allora combattevano le nazioni, ora gl’individui, o vogliamo dire
i governi; allora per conseguenza i combattenti o gl’ingiusti, erano giusti e
virtuosi verso qualcuno, cioè verso i proprii, adesso verso nessuno; allora le
nimicizie [899]partorivano le grandi virtù, e l’eroismo in ciascuna
nazione, adesso i grandi vizi e la viltà; allora una nazione opprimeva l’altra,
adesso tutte sono oppresse, la vinta come la vincitrice; allora serviva il
vinto, adesso la servitù è comune a lui col vincitore; allora i vinti erano
miseri e schiavi, cosa naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo
sono nè più nè meno anche i vincitori e fortunati, cosa barbara e assurda;
allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva,
adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la
move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel
muoverla, quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche. E i governi oggi
tra loro, sono in istato di guerra (o aperta o no) tanto continua, quanto le
nazioni anticamente.
Lascio
le atrocità commesse anche ne’ primi e più fervorosi tempi Cristiani sopra i
Capi delle nazioni vinte: cosa conseguente, perch’essi erano i vinti, e non le
nazioni. E così costumavasi, per naturale effetto, anche anticamente, nella
vittoria di nazioni serve al di dentro e monarchiche. Nè mancano esempi più
recenti nelle storie, di questa naturale conseguenza dello stato presente dei
popoli, cioè dell’odio privato o pubblico fra’ loro capi, e delle sevizie usate
sopra i principi vinti o prigioni ec.
Vengo
all’atto della guerra. Anticamente, dicono, combattevano le nazioni intere: le
guerre de’ tempi [900]Cristiani fatte con piccoli eserciti, hanno meno
sangue, e meno danni. Ma anticamente combatteva il nemico contro il nemico, oggi
l’indifferente coll’indifferente, forse anche coll’amico, il compagno, il
parente; anticamente nessuno era che non combattesse per la causa propria, oggi
nessuno che non combatta per causa altrui; anticamente il vantaggio della
vittoria era di chi avea combattuto, oggi di chi ha ordinato che si combatta. È
in natura che il nemico combatta il suo nemico, e per li suoi vantaggi; e ciò
si vede anche nei bruti, certo non corrotti, anche dentro la loro propria
specie, e co’ loro simili. Ma non è cosa tanto opposta alla natura, quanto che
un individuo senza nè odio abituale, nè ira attuale, con nessuno o quasi
nessuno vantaggio ed interesse suo, per comando di persona che certo non ama
gran fatto, e probabilmente non conosce, uccide un suo simile che non l’ha offeso
in nessuna maniera, e che, per dir poco, non conosce neppure e non è conosciuto
dall’uccisore. Anzi di più, un individuo ch’egli odia per lo più molto meno di
quello che gli comanda di ucciderlo, e certo molto meno di gran parte fra’ suoi
stessi compagni d’arme, e fra’ suoi concittadini. Perchè oggi gli odi, le
invidie, le nimicizie, si esercitano coi vicini, e nulla ordinariamente coi
lontani: l’egoismo individuale ci [901]fa nemici di quelli che ci
circondano, o che noi conosciamo, ed hanno attenenza con noi; e massime di
quelli che battono la nostra stessa carriera, e aspirano allo stesso scopo che
noi cerchiamo, e dove vorremmo esser preferiti; di quelli che essendo più
elevati di noi, destano per conseguenza l’invidia nostra, e pungono il nostro amor
proprio. Lo straniero al contrario ci è per lo meno indifferente, e spesso più
stimato dei conoscenti, perchè la stima ec. è fomentata dalla lontananza, e
dalla ignoranza della realtà, e dallo immaginario che ne deriva: ed infatti in
un paese dove non regni amor patrio, il forestiero è sempre gradito, e i
costumi, i modi ec. ec. tanto suoi, come di qualunque nazione straniera, sono
sempre preferiti ai nazionali, ed egli lo è parimente. Così che il soldato
oggidì è molto più nemico sì di quelli in cui compagnia combatte, sì di quelli
in cui vantaggio, per cui volere, sotto di cui combatte, che di coloro ch’egli
combatte ed uccide. E tutto ciò per natura delle cose, e non per capriccio.
Talchè, se vorremo una volta considerar bene le cose, non le apparenze,
troveremo molta più barbarie oggidì nella uccisione di un nemico solo, che
anticamente nel guasto di un popolo: perchè questo era del tutto secondo
natura; quello è per tutti i versi contrario alla natura.
[902]Voglio andare anche più avanti, e
mostrare che questo preteso vantaggio del poco numero de’ combattenti, ha
sussistito finora non per altro se non perchè le nazioni hanno conservato
qualche cosa di antico, e continuato ad essere in qualche modo nazioni; e che
ora che hanno cessato affatto di esserlo, il detto vantaggio non può più
sussistere.
Certo
che le nazioni non essendo più nemiche l’una dell’altra, e gli eserciti essendo
come truppe di operai pagati perchè lavorino il campo del padrone, e il numero
di un esercito non richiedendosi che sia se non quanto è quello dell’altro, le
guerre si potrebbero sbrigare con pochissimo numero di combattenti, e anche con
un compromesso, dove due sole persone pagate combattessero insieme per decider
la causa. Ma l’egoismo dell’uomo porta ch’egli impieghi ad ottenere il suo fine
tutte quante le forze ch’egli può impiegare a tale effetto.
Un grand’esercito,
sì per se stesso, sì per le imposte che bisognano a mantenerlo, non si mantiene
senza incomodo e danno e spesa dei sudditi. Finchè i sudditi non sono stati affatto
servi, finchè la moltitudine è stata qualche cosa, finchè la voce della nazione
si è fatta sentire, finchè la carne umana, eccetto quella di un solo per
nazione, non è stata ad intierissima disposizione di questo solo che comanda, e
come la carne, così tutto il resto, e la nazione per tutti i versi; fino, dico, [903]ad un tal punto, il principe non potendo adoperare la nazione a’
suoi propri fini, se non sino ad un certo segno, le armate non furono più che
tanto numerose. La nazione, che era ancora in qualche modo nazione, non
tollerava facilmente 1. di guerreggiare pel puro capriccio del suo capo, e in
bene di lui solo, 2. le leve forzate, o almeno eccessive, 3. l’eccesso delle
imposte per far la guerra. Non tollerava, dico, tutto questo, o poneva il principe
in gravissimi pericoli e disturbi al di dentro. Così che era dell’interesse del
principe di risparmiare la nazione, che ancora tanto o quanto esisteva, e
risparmiarla, sì nelle altre cose, sì massimamente dove si trattava del suo
sangue, e delle sue proprietà più care, che sono i figli, i congiunti ec. Dal
tempo della distruzione della libertà, fino ai principii o alla metà del
seicento, i sovrani se anche erano più tiranni d’oggidì, cioè più violenti e
sanguinarii, appunto per l’urto in cui erano colla nazione, non sono stati però
mai padroni così assoluti de’ popoli, come in appresso. Basta legger le storie
e vedere come fossero frequenti e facili e pericolose in quei tempi le
sedizioni, i tumulti popolari ec. che per qualunque cagione nascessero, mostravano
pur certo che la nazione era ancor viva, ed esisteva. E non era strano in quei
tempi, come dopo, [904]il vedere scorrere il sangue de’ principi per
mano de’ suoi soggetti. Di più il potere era assai più diviso, tanto colle
baronie, signorie, feudi, ch’era il sistema monarchico d’allora, quanto colle
particolari legislazioni, privilegii, governi in parte indipendenti delle città
o provincie componenti le monarchie. Così che il re, non trovando tutto a sua
sola disposizioine, e non potendo servirsi della nazione per le sue voglie, se
non con molti ostacoli, le armate venivano ad esser necessariamente piccole: ed
è cosa manifesta che quando la signoria di una nazione è divisa in molte
signorie, il signore di tutte, non può prendere da ciascuna se non poco, e
infinitamente meno di quello che prenderebbe s’egli fosse il signore immediato,
e se tutto dipendesse intieramente dall’arbitrio suo. Cosa dimostrata dalla
storia, ed osservata dai politici. Ed anche per questo si stima nella guerra
come principalissimo vantaggio, l’assoluta padronanza di un solo, e la intera
monarchia, come quella di Macedonia in mezzo alla Grecia divisa ne’ suoi
poteri. (Il che però ne’ miei principii si deve intendere solamente nel caso
che quelle nazioni combattute da una potenza dispotica non siano dominate da
vero amor di patria, o meno, se è possibile, di quella nazione soggetta al
dispotismo. E tale era la Grecia ai tempi Macedonici, laddove la sola Atene
aveva una volta resistito alla potenza dispotica della Persia, e vintala.
Perchè del resto è certo che un solo vero soldato della patria, val più di
dieci soldati di un despota, se in quella nazione monarchica non esiste
altrettanto o simile patriotismo. E appunto nella battaglia di Maratona, uno si
trovò contro dieci, cioè 10.m contro 100.m e vinsero.) Sono anche note le
costituzioni di quei tempi, le carte nazionali, l’uso degli stati generali,
corti ec. come in Francia, in Ispagna ec. con che o la moltitudine faceva
ancora sentir la sua voce, o certo il potere restava meno indipendente ed uno,
e il monarca più legato.
[905]Ma da che il progresso dell’incivilimento
o sia corruzione, e le altre cause che ho tante volte esposte, hanno estinto
affatto il popolo e la moltitudine, fatto sparire le nazioni, tolta loro ogni
voce, ogni forza, ogni senso di se stesse, e per conseguenza concentrato il
potere intierissimamente nel monarca, e messo tutti i sudditi e ciascuno di
essi, e tutto quello che loro in qualunque modo appartiene, in piena
disposizione del principe; allora e le guerre son divenute più arbitrarie, e le
armate immediatamente cresciute. Ed è cosa ben naturale, e non già casuale, ma
conseguenza immancabile e diretta della natura delle cose e dell’uomo. Perchè
quanto un uomo può adoperare in vantaggio suo, tanto adopera; ed ora che il
principe può adoperare al suo qualunque scopo o desiderio, tutta quanta è, e
tutto quanto può la nazione, segue ch’egli l’adopri effettivamente senz’altri
limiti che quelli di lei stessa, e delle sue possibili forze. Il fatto lo
prova. Luigi 14. o primo, o uno de’ primi di quei regnanti che appartengono all’epoca
della perfezione del dispotismo, diede subito l’esempio al mondo, della
moltitudine delle armate. Dato che sia questo esempio il seguirlo è necessario.
Perchè siccome oggi la grandezza di un’armata è arbitraria bensì, ma dipende, e
deve corrispondere quanto si possa a quella del nemico, [906]così se
quella del nemico è grande, bisogna che ancor voi, se potete, ancorchè non
voleste, facciate che la vostra sia grande, e superi, potendo, in grandezza la
nemica; nello stesso modo che la potreste far piccola, anzi menomissima per le
stesse ragioni, nel caso opposto, come ho detto p.902. Infatti l’esempio di
Luigi 14. fu seguito sì da’ principi suoi nemici, sì da Federico secondo, il
filosofo despota, e l’autore di molti nuovi progressi del despotismo, da lui
felicemente coltivato e promosso. Ed egli parimente obbligò alla stessa cosa i
suoi nemici. Finalmente la cosa è stata portata all’eccesso da Napoleone, per
ciò appunto ch’egli è stato l’esemplare della forse ultima perfezione del
despotismo. Non però quest’eccesso è l’ultimo a cui vedremo naturalmente e
inevitabilmente arrivare la cosa.
Dico
inevitabilmente, supposti i progressi o la durata del dispotismo, e del
presente stato delle nazioni, le quali due cose, secondo l’andamento dei tempi,
il sapere che regna ec. non pare che per ora, possano far altro che nuovi
progressi, o pigliar nuove radici. E in questo caso, dico inevitabilmente, sì
per l’egoismo naturale dell’uomo, e conseguentemente del principe, egoismo il
cui effetto è sempre necessariamente proporzionato al potere dell’egoista; sì
ancora perchè dato che sia l’esempio, e preso il costume questo andamento, la
cosa si rende necessaria anche a chi non la volesse. E [907]che ciò sia
vero, osservate. Come si potrebbe rimediare a questo costume, ancorchè egli sia
in ultima analisi arbitrario e dipendente dalla volontà? Con un accordo
generale dei principi, di tutti coloro che possono mai guerreggiare? Non ignoro
che questo accordo si tentò, o si suppose che si tentasse o proponesse al
Congresso di Vienna. E certo l’occasione era l’ottima che potesse mai darsi, ed
altra migliore non si darà mai. So però che nulla se n’è fatto. Forse avranno
conosciuta l’impossibilità, che realmente vi si oppone. Primo, qual è oggi la
guarentia de’ trattati, se non la forza o l’interesse? Qual forza dunque o
quale interesse vi può costringere a non cercare il vostro interesse con tutte
le forze che potete? Secondo, (e questo prova più immediatamente che, anche
volendo, non si può rimediare) chi si fida di un trattato precedente, in tempo
di guerra? Chi non conosce quello che ho detto qui sopra nel primo luogo? e
generalmente, chi non conosce la natura universale e immutabile dell’uomo? Se
dunque il principe conosce tutto ciò, dunque sospetta del suo nemico; dunque
anche non volendo, è obbligato a tenersi e provvedersi in modo ch’egli sappia
resistere quanto più si può, a qualunque forza che il nemico voglia impiegare
per attaccarlo. Chi è colui che possa levar mille uomini, e ne levi cento, non
sapendo se il nemico l’assalterà [908]con cento o con mille, anzi avendo
più da creder questo che quello? E quando si fosse fatto l’accordo generale, e
osservatolo per lungo tempo, tanto maggiore sarebbe il vantaggio proposto a chi
improvvisamente rompesse il patto: e quindi presto o tardi questo tale non
mancherebbe. Ciò lo metterebbe in pieno possesso del suo nemico, e dopo un
esempio solo di questa sorta, ognuno diffiderebbe, nessuno vorrebbe sull’incertezza
arrischiare il tutto, e tutti ritornerebbero al primo costume. E ciò si deve
intendere non meno in tempo di guerra che di pace, essendo sempre continuo il
pericolo che i governi portano l’uno dall’altro. E ciò ancora è manifesto dal
fatto, e dalle grandi forze che si tengono ora in tempo di pace, così che non c’è
ora un tempo dove un paese resti disarmato, anzi non bene armato, a differenza
sì de’ tempi antichi, sì de’ secoli cristiani anteriori a questi ultimi.
Da tutto
ciò segue che le armate non solo non iscemeranno più, ma cresceranno sempre,
cercando naturalmente ciascuno di superare l’altro con tutte le sue forze, e le
sue forze stendendosi quanto quelle della nazione: che quindi le nazioni
intiere, come fra gli antichi, si scanneranno scambievolmente, ma non, come fra
gli antichi, spontaneamente, e di piena volonterosità, anzi vi saranno cacciate
per marcia forza; non odiandosi scambievolmente, anzi essendo in piena
indifferenza, e forse anche bramando di esser vinte (perchè, ed anche questo è
notabile, perduto l’amor di patria, e l’indipendenza interna, la novità del
padrone, e delle leggi, governo ec. non solo non è odiata nè temuta, ma spesso
desiderata e preferita) non per il proprio bene, ma per l’altrui; non per il
ben comune, ma di uno solo; anzi di quei soli che abborriranno più di qualunque
altro, [909]e più assai di chi combatteranno; insomma non secondo
natura, nè per effetto naturale, ma contro natura assolutamente. E lo stesso
dite di tutte le altre conseguenze del dispotismo, sì rispetto alla guerra,
come indipendentemente da essa. Cioè i popoli, sì per causa delle proprie e
delle altrui armate, sì astraendo da ciò, saranno smunti, impoveriti,
disanguati, privati delle loro comodità, impedita o illanguidita l’agricoltura,
collo strapparle i coltivatori, e collo spogliarla del prodotto delle sue
fatiche; inceppato e scoraggiato il commercio e l’industria, collo impadronirsi
che farà del loro frutto, il sempre crescente dispotismo ec. ec. ec. In somma
le nazioni, senza odiarsi come anticamente, saranno però come anticamente
desolate, benchè senza tumulto, e senza violenza straordinaria; lo saranno dall’interno
più che dall’estero, e da questo ancora, secondo le circostanze ec. ec. E tutto
ciò non già verisimilmente, o senza una stabile e necessaria cagione, ma per
conseguenza immancabile della natura umana, la quale non perchè sia diversa e
peggiore ne’ principi, ma semplicemente come natura umana, li porterà
inevitabilmente a tutto questo; e il fatto già lo dimostra in moltissime e
grandissime parti. E tutto ciò senza ricavarne quell’entusiasmo, quel
movimento, quelle virtù, quel valore, quel coraggio, quella tolleranza dei mali
e delle fatiche, quella costanza, quella forza, quella vita pubblica e
individuale, che derivava agli antichi anche dalle stesse grandi calamità: anzi
per lo contrario, crescendo in proporzione delle moderne calamità, [910]il
torpore, la freddezza, l’inazione, la viltà, i vizi, la monotonia, il tedio, lo
stato di morte individuale, e generale delle nazioni. Ecco i vantaggi dell’incivilimento,
dello spirito filosofico e di umanità, del diritto delle genti creato, dell’amore
universale immaginato, dell’odio scambievole delle nazioni distrutto, dell’antica
barbarie abolita.
Queste
mie osservazioni sono in senso tutto contrario a quello dell’Essai ec.
loc. cit. da me p.888. il quale fa derivare la moltitudine delle armate moderne
dallo spirito ed odio nazionale, ed egoismo delle nazioni, ed io (credo molto
più giustamente) dalla totale ed ultima estinzione di questo spirito, e quindi
di quest’odio, e di questo egoismo.
6. Non
solamente le virtù pubbliche, come ho dimostrato, ma anche le private, e la
morale e i costumi delle nazioni, sono distrutti dal loro stato presente.
Dovunque ha esistito vero e caldo amor di patria, e massime dove più, cioè ne’
popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri, altrettanto gravi,
fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni d’integrità. Quest’è una conseguenza
naturale dell’amor patrio, del sentimento che le nazioni, e quindi gl’individui
hanno di se stessi, della libertà, del valore, della forza delle nazioni, della
rivalità che hanno colle straniere, e di quelle illusioni grandi e costanti e
persuasive che nascono da tutto ciò, e che vicendevolmente lo producono: ed
ella è cosa evidente che la virtù non ha fondamento se non se nelle illusioni,
e che dove mancano le illusioni, manca la virtù, e regna il vizio, nello stesso
modo che la dappocaggine e la viltà. Queste son cose evidenti nelle storie, ed
osservate da tutti i filosofi, e politici. Ed è tanto vero; che le virtù
private si trovano sempre in proporzione coll’amor patrio, e colla forza e
magnanimità di una nazione; e l’indebolimento di queste [911]cose, colla
corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova nella storia sempre
compagna della perdita dell’amor patrio, della indipendenza, delle nazioni,
della libertà interna, e di tutte le antiche e moderne repubbliche: influendo
sommamente e con perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la
producono, sull’amor patrio, e l’amor patrio sulle illusioni e sulla morale. È
cosa troppo nota qual fosse la depravazione interna de’ costumi in Francia da
Luigi 14. il cui secolo, come ho detto, fu la prima epoca vera della perfezione
del dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino
alla rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato alla perduta
morale francese, quanto era possibile 1. in questo secolo così illuminato, e
munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2. in tanta, e tanto radicata
e vecchia depravazione, a cui la Francia era assuefatta: 3. in una nazione
particolarmente ch’è centro dell’incivilimento, e quindi del vizio: 4. col
mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla filosofia, che volere o
non volere, in ultima analisi è nemica mortale della virtù, perch’è amica anzi
quasi la stessa cosa colla ragione, ch’è nemica della natura, sola sorgente
della virtù.
Analogo
al pensiero precedente è questo che segue. [912]È cosa osservata dai
filosofi e da’ pubblicisti che la libertà vera e perfetta di un popolo non si
può mantenere, anzi non può sussistere senza l’uso della schiavitù interna.
(Così il Linguet, credo anche il Rousseau, Contrat social l.3. ch.15. ed
altri. Puoi vedere anche l’Essai sur l’indifférence en matière de Religion,
ch.10. nel passo dove cita in nota il detto luogo di Rousseau insieme con due
righe di questo autore.) Dal che deducono che l’abolizione della libertà è
derivata dall’abolizione della schiavitù, e che se non vi sono popoli liberi,
questo accade perchè non vi sono più schiavi. Cosa, che strettamente presa, è
falsa, perchè la libertà s’è perduta per ben altre ragioni, che tutti sanno, e
che ha toccate in cento luoghi. Con molto maggior verità si potrebbe dire che l’abolizione
della schiavitù è provenuta dall’abolizione della libertà; o vogliamo, che
tutte due son provenute dalle stesse cause, ma però in maniera che questa ha
preceduto quella e per ragione e per fatto.
La
conseguenza, dico, è falsa: ma il principio della necessità della schiavitù ne’
popoli precisamente liberi, è verissimo. Ecco in ristretto il fondamento e la
sostanza di questa proposizione.
L’uomo
nasce libero ed uguale agli altri, e tale egli è per natura, e nella stato
primitivo. Non così nello [913]stato di società. Perchè in quello di
natura, ciascuno provvede a ciascuno de’ suoi bisogni e presta a se medesimo
quegli ufficii che gli occorrono, ma nella società ch’è fatta pel ben comune, o
ella non sussiste se non di nome, ed è al tutto inutile che gli uomini si
trovano insieme, ovvero conviene ch’essi si prestino uffizi scambievoli, e
provvedano mutuamente a’ loro bisogni. Ma ciascuno a ciascun bisogno degli
altri non può provvedere: ovvero sarebbe cosa ridicola, e inutile, che io p.e.
pensassi intieramente a te, tu intieramente a me, potendo nello stesso modo
viver separati, e far ciascuno per noi. Dunque segue la necessità delle diverse
professioni e mestieri, alcuni necessari alla vita assolutamente, ovvero tali
quali li avrebbe esercitati l’individuo anche nella condizione naturale; altri
non necessari, ma derivati appoco appoco dalla società e conducenti ai comodi e
vantaggi che si godono (o si pretende godere) nella vita sociale, e intendo
anche quei comodi primi primi, che ora passano per necessità; altri finalmente
resi effettivamente necessari dalla stessa società come sono i mestieri che
provvedono a cose divenuteci indispensabili per l’assuefazione, quello di chi
insegna, quello massimamente di chi provvede alle cose pubbliche e veglia al bene
e all’esistenza precisa di essa società; quello delle persone che difendono il
buono dal cattivo (giacchè nata [914]la società nasce il pericolo del
debole rispetto al forte) e la società istessa dalle altre società ec. ec. ec.
In somma, o la società non esiste assolutamente, o in essa esiste
necessariamente la differenza dei mestieri e dei gradi.
Questo
porterebbe le nazioni alle gerarchie, e così accadde infatti da principio, e
accade ne’ popoli ancora non inciviliti, siccome ne’ civili. Ma corrotta appoco
appoco la società, e introdotto l’abuso del potere; e quindi i popoli avendo
scosso il giogo e ripigliata la libertà naturale, ripigliarono con ciò anche l’uguaglianza.
Ed oltre che questa naturalmente vien dietro alla libertà, ho dimostrato
altrove che la vera e precisa libertà non può mantenersi in una repubblica,
senza tutta quella uguaglianza di cui mai possa esser capace la società.
Ma la
libertà ed uguaglianza dell’uomo gli è bensì naturale nello stato primitivo; ma
non conviene nè si compatisce, massime nella sua stretta nazione, collo stato
di società, per le ragioni sopraddette. Restava dunque, che richiedendosi nella
società che l’uomo serva all’uomo, e questo opponendosi alla uguaglianza, l’uomo
di una tal società fosse servito da uomini di un’altra, o di più altre società
o nazioni, ovvero da una parte di quella medesima società, posta fuori de’
diritti, de’ vantaggi, delle proprietà, della uguaglianza, della libertà di
questa, insomma considerata come estranea alla [915]nazione, e quasi
come un’altra razza e natura di uomini dipendente, subalterna, e subordinata
alla razza libera e uguale. Ecco l’uso della schiavitù interna ne’ popoli
liberi e uguali; uso tanto più inerente alla costituzione di un popolo, quanto
egli è più intollerante della propria servitù, come si è veduto negli antichi.
In questo modo la disuguaglianza in quel tal popolo libero veniva ad esser
minore che fosse possibile, essendo le fatiche giornaliere, i servigi bassi,
che avrebbero degradata l’uguaglianza dell’uomo libero, la coltura della terra
ec. destinata agli schiavi: e l’uomo libero, chiunque si fosse, e per povero
che fosse, restando padrone di se, per non essere obbligato ai quotidiani
servigi mercenarii, che vengono necessariamente a togliere in sostanza la sua
indipendenza e libertà; e non partecipando quasi, in benefizio comune della
società, se non della cura delle cose pubbliche, e del suo proprio governo,
della conservazione o accrescimento della patria col mezzo della guerra ec.
colle sole differenze che nascevano dal merito individuale ec.
Tale
infatti era la schiavitù nelle antiche repubbliche. Tale in Grecia, tale quella
degl’Iloti, stirpe tutta schiava presso i Lacedemoni, oriunda di Elos (†Elow) terra (oppidum) o città (casi Strabone presso il Cellar. 1.967.) del
Peloponneso, presa a forza da’ Lacedemoni nelle guerre, credo, Messeniache, e
ridottane tutta la popolazione in ischiavitù, sì essa come i suoi discendenti
in perpetuo. V. l’Encyclopéd. Antiquités, art. Ilotes, e il Cellario 1.973.
Tale la schiavitù presso i Romani, della quale v. fra gli altri il Montesquieu, [916]Grandeur etc. ch.17. innanzi alla metà. Floro 3.19. Terra
frugum ferax, (Sicilia) et quodammodo suburbana provincia, latifundiis
civium Romanorum tenebatur. Hic AD CULTUM AGRI frequentia ergastula,
CATENATIQUE CULTORES, materiam bello praebuere. E quanta fosse la
moltitudine degli schiavi presso ai Romani si può congetturare dalla guerra
servile, e dal pericolo che ne risultò. Ne avevano i Romani, cred’io, d’ogni
genere di nazioni; e Floro l.c. nomina un servo Siro cagione e capo della
guerra servile; Frontone nell’ultima epist. greca, una serva Sira ec. ec. cose
che si possono vedere in tutti gli scrittori delle antichità Romane. V. il
Pignorio De Servis, e, se vuoi, l’articolo originale del Cav. Hager
nello Spettatore di Milano 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p.244. fine-245.
principio, dove si tocca questo argomento della gran moltitudine de’ servi
romani, e se ne adducono alcuni esempi e prove, e si cita il detto Pignorio che
dovrebbe trovarsi nel Grevio ec. Cibale schiava Affricana è
nominata nel Moretum.
E qual
fosse l’idea morale che gli antichi avevano degli schiavi, si può dedurre da
cento altri scrittori e luoghi, e fatti, e costumi degli antichi, ma
segnatamente da questo luogo di Floro 3.20. Enimvero servilium armorum
dedecus feras. Nam et ipsi per fortunam IN OMNIA OBNOXII (scil. nobis) tamen
QUASI SECUNDUM HOMINUM GENUS SUNT, et in bona libertatis nostrae adoptantur.
Questa seconda
razza di uomini serviva dunque alla uguaglianza e libertà de’ popoli
antichi, in proporzione di essa libertà ed uguaglianza, e delle forze
rispettive di questo o quel popolo, guerriere o pecunarie ec. per [917]fare
o comperare degli schiavi. E l’antica uguaglianza e libertà, si manteneva
effettivamente coll’aiuto e l’appoggio della schiavitù, ma della schiavitù di
persone, che non avevano nulla di comune col corpo e la repubblica e la società
di quelli che formavano la nazione libera ed uguale. Così che la libertà ed
uguaglianza di una nazione, aveva bisogno, e supponeva la disuguaglianza delle
nazioni, e l’una non era indipendente neppure al di dentro, se non per la
soggezione di altre, o parti di altre ec.
E la
verità di tutte queste cose, e come l’uso o la necessità della schiavitù in un
popolo libero abbia la sua ragione immediata non nella libertà, ma precisamente
nella uguaglianza interna di esso popolo, si può vedere manifestamente per
questa osservazione, la quale dà molta luce a questo discorso. Arriano
(Histor. Indica, cap.10. sect.8-9. edit. Wetsten. cum Expedit. Alexand.
Amstelaed. 1757. cura Georg. Raphelii, p.571.) dice fra le cose che si
raccontavano degl’Indiani: Eänai d¢ (l¡getai)
kaÜ tñde m¡ga ¤n t» ƒ
IndÇn g»,
p‹ntaw ƒ
Indoçw eänai ¤leuJ¡rouw, oéd¡ tina doèlon eänai ƒ
Indon: toèto m¢n LakedaimonÛoisin ¤w tautò sumbaÛnei kaÜ ƒindoÝsin: (qua quidem in re Indis
cum Lacedaemoniis convenit. Interpres.) LakedaimonÛoiw m¡n ge oß eálvtew doèloÛ eÞsin,
kaÜ tŒ doælvn ¤rg‹zontai: ƒIndoÝsi d¢, oéd¢ llow doèlñw ¤sti, m®ti
ge ƒ IndÇn tiw.
(m®toige nedum. Index vocum.) [918]Osservate subito che questa cosa pare ad
Arriano maravigliosa e singolare. Poi osservate, che gl’indiani erano liberi, cioè parte
avevano monarchie, ma somiglianti a quella primitiva di Roma ch’era una specie
di Repubblica e alle antichissime monarchie greche; parte erano pñliew aétñnomoi città libere e indipendenti assolutamente. (Id. ibid.
c.12. sect.6. et 5. p.574.) Qual era dunque la cagione di questa singolarità?
Sebbene Arriano non l’osserva, ella si trova però in quello ch’egli soggiunge
immediatamente. Ed è questo: Nen¡mhntai d¢ oß p‹ntew ƒ IndoÜ ¤w ¥ptŒ m‹lista geneŒw Distinguuntur autem Indi omnes
in septem potissimum genera hominum (interpres.), ossia, caste. (Id. ib.
c.11. sect.1. p.571.) La prima de’ sofisti (sofistaÜ), la seconda degli agricoltori (gevrgoÜ), la terza de’ pastori e bifolchi (nom¡ew, oi poim¡new te kaÜ boukñloi), la 4ta opificum et
negotiatorum (dhmiourgikñn te kaÜ kaphlikòn g¡now), la quinta dei militari (oß polemistaÜ) i quali non avevano che a far la guerra quando
bisognava, pensando gli altri a fornirli di armi, mantenerli, pagarli (tanto in
tempo di guerra che di pace) e prestar loro tutti quanti gli uffizi castrensi,
come custodire i cavalli, condurre gli elefanti, nettare le armi, fornire e
guidare i cocchi, sicchè non restava loro che le pure funzioni guerriere; la
sesta episcoporum sive inquisitorum (oi ¤pÛskopoi kaleñmenoi), specie d’ispettori di polizia, i
quali non potevano [919]riferir niente di falso, e nessun indiano fu
incolpato mai di menzogna oéd¡ tiw ƒIndÇn aÞtÛhn ¦sxe ceæsasJai (c.12. sect.5. p.574. fine); la
settima finalmente oß êp¢r tÇn koinÇn bouleuðmenoi õmoè tÒ basileÝ, µ katŒ pñliaw ôsai aétñnomoi, (liberae. interpres) sçn t»sin Žrx»sin: casta per sapienza e giustizia (sofÛh+ kaÜ dikaiñthti) sopra tutti prestante, dalla
quale si sceglievano i magistrati, i regionum praesides (nom‹rxai), i prefetti (ìparxoi), i quaestores (Jhsaurofælakew), i stratofælakew (copiarum duces), naæarxoÛ te, kaÜ tamÛai, kaÜ tÇn katŒ gevrgÛhn ¦rgvn ¤pist‹tai. (ib. c.12. sect.6-7.) Ecco dunque
la ragione perchè gl’indiani non usavano schiavitù. Perchè sebben liberi, non
avevano l’uguaglianza.
Ma come
dunque senza l’uguaglianza conservavano la libertà? Neppur questo l’osserva
Arriano, ma la cagione si deduce da quello ch’egli immediatamente soggiunge:
(ib. sect.8-9) Gam¡ein d¢ ¤j ¤t¡rou g¡neow, oé J¡miw: oåon toÝsi gevrgoÝsin ¤k toè dhmiourgikoè, µ ¦mpalin: oéd¢ dæo t¡xnaw ¤pithdeæein tòn aétòn, oéd¢ toèto J¡miw: oéd¢ ŽmeÛbein ¤j ¥t¡rou g¡neow eÞw §teron: oåon gevrgikòn ¤k nom¡vw g¡nesJai µ nom¡a ¤k chmiorgikoè. Moènon ofÛsin ŽneÝtai, sofist¯n ¤k pantòw g¡neow gen¡sJai: ôti oé malJakŒ toÝsi sofist»sin eÞsÜ tŒ pr®gmata, ŒllŒ p‹ntvn talaipvrñtata (non mollis vita sed omnium
laboriosissima. interpres.)
Questa
costituzione, che si vede ancora sussistere fra [920]gl’indiani quanto
alla distinzione in caste, e al divieto di passare dall’una all’altra o per
matrimonii, o comunque; a questa costituzione che sussiste, credo, in parte
anche nella Cina, dove il figlio è obbligato ad esercitare la professione del
padre, e dove i ranghi sono con molta precisione distinti; questa costituzione,
di cui, se ben ricordo, si trova qualche traccia fra gli antichi Persiani nel
primo o ne’ primi libri della Ciropedia; questa costituzione, di cui si trova
pure qualche indizio nel popolo Ebreo, dove una sola tribù era destinata
esclusivamente al Sacerdozio; questa costituzione che pare che in tutto o in
parte, fosse comune, fino dagli antichissimi tempi, ai popoli dell’Asia, e si
vede, se non erro, anche oggidì, in alcune nazioni delle coste dell’Affrica;
questa costituzione di cui forse si potrebbero trovare molte somiglianze anche
nelle altre conosciute, e massime nelle più antiche, come nell’antica
costituzione di Roma ec.; questa costituzione, dico, è forse la migliore, forse
l’unica capace di conservare, quanto è possibile, la libertà senza l’uguaglianza.
Perocchè,
ponendo un freno e un limite all’ambizione, e alla cupidigia degl’individui, e
togliendo [921]loro la facoltà di cangiare, e di avanzare più che tanto
la loro condizione, viene a togliere in gran parte la collisione dei poteri, e
le discordie interne; viene a conservare l’equilibrio, a mantenere lo stato
primitivo della repubblica (che dev’essere il principale scopo degl’istituti
politici), a perpetuare l’ordine stabilito ec. ec.
Vero è
però, anzi troppo vero, che in questa costituzione io dubito che si possano
trovare i grandi vantaggi della libertà. Si troverà la quiete, e la detta
costituzione sarà adattata ad un popolo, che per qualunque cagione, sia capace
di contentarsi di questo vantaggio, e contenere i suoi desideri dentro i limiti
del tranquillo e libero ben essere, e ben vivere, senza curarsi del meglio che in
verità è sempre nemico del bene. Ma l’entusiasmo, la vita, le virtù splendide
dei popoli liberi, non pare che si possano compatire con questa costituzione.
Tolte le due molle dell’ambizione e della cupidigia, vale a dire dell’interesse
proprio; tolta quasi la molla della speranza, almeno della grande speranza;
deve seguirne l’inattività, e il poco valore in tutto il significato di questa
parola, la poca forza nazionale ec. L’interesse proprio non essendo legato con
quello della patria, o per lo meno, con quello del di lei avanzamento, giacchè
questo avanzamento non sarebbe [922]legato, o certo poco legato, coll’avanzamento
individuale, e di quello stesso che avesse procurato l’avanzamento della
patria; di più non partecipando, se non pochissimi al governo, e quindi la
moltitudine, non sentendo intimamente di far parte della patria, e d’esser
compatriota de’ suoi capi; l’amor patrio in questo tal popolo, o non deve
formalmente e sensibilmente esistere, o certo non dev’esser molto forte, nè
cagione di grandi effetti, nè capace di spingere l’individuo a grandi
sacrifizi.
Il fatto
dimostra queste mie osservazioni. Perchè una conseguenza immancabile di questa
costituzione, dev’essere, secondo il mio discorso, che un tal popolo, ancorchè
libero, e quanto all’interno, durevole nella sua libertà, e nel suo stato
pubblico, tuttavia non possa essere conquistatore. Ora ecco appunto che Arriano
ci dice, come gl’indiani non solo non furono mai conquistatori, ma per una
parte, da Bacco e da Ercole in poi era opinione oéd¡na ¤mbaleÝn ¤w g°n tÇn ƒIndÇn ¤pÜ pol¡mÄ fino ad Alessandro (l.c. c.9.
sect.10. p.569); ed ecco la cagione per cui anche senza troppa forza nazionale,
ed interna, il loro stato potè durare lungamente: per l’altra parte era pure
opinione (sect.12. p. cit.) oé m¢n d¯ oéd¢ ƒIndÇn tina ¦jv t°w oÞkeÛhw stal°nai ¤pÜ pol¡mÄ, diŒ dikaiñthta (ad bellum missum [923]esse.
interpres). E altrove più brevemente: (c.5. sect.4. p.558.) Otow În õ MegasJ¡nhw l¡gei, oëte ƒIndoçw ¤pistrateèsai oédamoÝsin ŽnJrÅpoisin, oëte ƒIndoÝsin llouw ŽnJrÅpouw. Cioè fino ad Alessandro.
Conseguenza naturale della detta costituzione, sebbene Arriano lo riferisce
staccatamente, e come indipendente, e non vede la relazione che hanno queste
cose tra loro. V. p.943. capoverso 2.
Il fatto
sta che siccome nessuna nazione è così atta alla qualità di conquistatrice,
come una nazione libera, il che apparisce dal fatto, e da quello che ho
ragionato nel pensiero antecedente ec.; così anche è pur troppo vero che il
maggior pericolo della libertà di un popolo nasce dalle sue conquiste e da’
suoi qualunque ingrandimenti, che distruggono appoco [appoco] l’uguaglianza,
senza cui non c’è vera libertà, e cangiano i costumi, lo stato primitivo, l’ordine
della repubblica; sicchè finalmente la precipitano nella obbedienza. Cosa anche
questa dimostrata dal fatto.
Siccome
l’amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente
derivante dalla natura, posta la società, com’è naturale l’amor proprio nell’individuo,
e posta la famiglia, l’amor di famiglia, che si vede anche ne’ bruti; così esso
non si mantiene, e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi
che naturalmente ne derivano, o che anche ne sono il fondamento. L’uomo non è
sempre ragionevole, ma sempre conseguente in un modo o nell’altro. Come dunque
amerà [924]la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a
tutte le conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se
effettivamente egli non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò
la migliore di tutte; e molto più s’egli crederà le altre, o qualcun’altra,
migliore di lei? Come sarà intollerante del giogo straniero, e geloso della
nazionalità per tutti i versi, e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi
al dominio forestiero, se egli crederà lo straniero uguale al compatriota, e
peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che il nazionale ha potuto
o voluto ragionare sulle nazioni, e giudicarle; da che tutti gli uomini sono
stati uguali nella sua mente; da che il merito presso lui non ha dipenduto
dalla comunanza della patria ec. ec.; da che egli ha cessato di persuadersi che
la sua nazione fosse il fiore delle nazioni, la sua razza, la cima delle razze
umane; dopo, dico, che questo ha avuto luogo, le nazioni sono finite, e come
nella opinione, così nel fatto, si sono confuse insieme; passando
inevitabilmente la indifferenza dello spirito e del giudizio e del concetto,
alla indifferenza del sentimento, della inclinazione, e dell’azione. E questi
pregiudizi che si rimproverano alla Francia, perchè offendono l’amor proprio
degli stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza,
come lo furono presso gli antichi; [925]la causa di quello spirito
nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son pronti a
fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non dipendere dallo
straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così colta ed istruita
(cose contrarissime all’amor patrio), tuttavia serba ancora, forse più che qualunque
altra, la sembianza di nazione. E non è dubbio che dalla forza di questi
pregiudizi, come presso gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella
preponderanza sulle altre nazioni d’Europa, ch’ella ebbe finora, e che
riacquisterà verisimilmente.
Si
considera come sola cosa necessaria la vita, la quale anzi è la cosa meno
necessaria di tutte le altre. Perchè tutte le necessità o desiderabilità hanno
la loro ragione nella vita, la quale, massime priva delle cose o necessarie o desiderabili,
non ha la ragione della sua necessità o desiderabilità in nessuna cosa.
(6.
Aprile 1821.)
La
superiorità della natura sopra tutte le opere umane, o gli effetti delle azioni
dell’uomo, si può vedere anche da questo, che tutti i filosofi del secolo
passato, e tutti coloro che oggi portano questo nome, e in genere tutte le
persone istruite di questo secolo, che è indubitatamente [926]il più
istruito che mai fosse, non hanno altro scopo rispetto alla politica (parte
principale del sapere umano), e non sanno trovar di meglio che quello che la
natura aveva già trovato da se nella società primitiva, cioè rendere all’uomo
sociale quella giusta libertà ch’era il cardine di tutte le antiche politiche
presso tutte le nazioni non corrotte, e così oggi presso tutte le popolazioni
non incivilite, e allo stesso tempo non barbarizzate, cioè tutte quelle che si
chiamano barbare, di quella barbarie primitiva, e non di corruzione.
(6.
Aprile 1821.)
Alla
p.872. E non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie alla buona
creanza le lodi di se medesimo, se non perchè offendono l’amor proprio di chi
le ascolta. E perciò la superbia è vizio nella società, e perciò l’umiltà è
cara, e stimata virtù.
In
qualunque nazione o antica o moderna s’incontrano grandi errori contrari alla
natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non s’incontra
niente o ben poco di grande di bello di buono. E questo è l’uno de’ principali
motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia
rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del
bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi
ostacoli della ragione e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano
quasi niente di vero grande nè di vero bello, e ciò tanto [927]riguardo
alle azioni, ai costumi, all’entusiasmo e virtù della vita, quanto alle
produzioni dell’ingegno e della immaginazione. E la causa per la quale i Greci
e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa, che i
loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla natura,
sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione dell’ignoranza, e dal
difetto di questa. Al contrario de’ popoli orientali le cui superstizioni ed
errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo più di antichissima
data, furono e sono in gran parte contrarie alla natura, e quindi con verità si
possono chiamar barbare. E si può dire che nessun popolo antico, nell’ordine
del grande e del bello, può venire in paragone de’ greci e de’ Romani. Il che
può derivare anche da questo, che forse i secoli d’oro degli altri popoli, come
degli Egiziani, degl’Indiani, de’ Cinesi, de’ Persiani ec. ec. essendo venuti
più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria loro
non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell’antichità, col quale viene a
coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci è pervenuta la
memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta naturalmente alla
civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della grandezza e del fiore dei
popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa [928]e signoreggia le
storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de’ tempi ha potuto
pervenire, e perch’ella signoreggiò effettivamente in tempi più vicini a noi.
Anzi si può dire che quanto ci ha di grande e di bello rispetto all’antichità
nelle storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all’ultima
epoca dell’antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli
ultimi popoli. ‰Ù †Ellhnew ŽeÜ paÝdew ¤ot¢ ec. Platone in persona di quel
sacerdote Egiziano.
Spegnere parola tutta propria oggi degl’italiani,
non pare che possa derivare da altro che da sbennæein mutato, oltre la desinenza, il b in p, mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso
organo, cioè labiali, e il doppio n in gn, questo pure
ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus fanno año
ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla detta parola greca, è necessario
supporre ch’ella fosse usitata nell’antico latino, (sia che le dette mutazioni,
o vogliamo, diversità di lettere esistessero già nello stesso latino, sia che
vi fossero introdotte, nel passare questa parola dal latino in italiano) tanto
più che l’uso del detto verbo spegnere è limitato, (cred’io) alla sola
Italia. Il Forcellini non ha niente di simile nelle parole comincianti per exb,
exp, exsb, exsp, sb, sp. Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente.
(10.
Aprile 1821.)
La
lingua Sascrita, quell’antichissima lingua indiana, che quantunque diversamente
alterata e corrotta, e distinta in moltissimi dialetti, vive ancora e si parla
in tutto l’Indostan, [929](Annali di Scienze e Lettere Milano. 1811.
Gennaio. vol.5. n.13. Vilkins, Gramatica della lingua Sanskrita: articolo
tradotto da quello di un cospicuo letterato nell’Edinburgh Review. p.28-29-31.
fine-32. principio. e 32. mezzo. 35. fine-36. principio) e altre parti dell’India,
(ivi 28. fine) e segnatamente sotto nome di lingua Pali in tutte le nazioni poste all’oriente della medesima India (ivi 36.); quella lingua che Sir William
(Guglielmo) Jones famosissimo per la cognizione sì delle cose orientali, sì
delle lingue orientali e occidentali (ivi 37. princip. e fine), non dubitò
di dichiarare essere più perfetta della greca, più copiosa della Latina, e dell’una
e dell’altra più sapientemente raffinata (ivi 52.); quella lingua dalla
quale è opinione di alcuni dotti inglesi del nostro secolo, non senza appoggio
di notabili argomenti e confronti, che sieno derivate, o abbiano avuto origine
comune con lei, le lingue Greca, Latina, Gotica, e l’antica Egiziana o Etiopica
(come pure i culti popolari primitivi di tutte queste nazioni) (ivi. 37.38.
princip. e fine); questa lingua, dico, antichissima, ricchissima, perfettissima,
avendo otto casi, non si serve delle preposizioni coi nomi (i suoi otto casi
rendono superfluo l’uso delle preposizioni. ivi 52. fine), ma le adopera
esclusivamente da prefiggersi ai verbi, come si fa in greco, laddove,
sole, rimangonsi prive affatto d’ogni significato. (ivi.) Così che tutte le
sue preposizioni sono destinate espressamente ed unicamente alla composizione,
e a variare e moltiplicare col mezzo di questa, i significati [930]dei
verbi. (Altre particolarità di quella lingua, analoghe affatto alle
particolarità e pregi delle nostre lingue antiche, come formalmente l’osserva l’Estensore
dell’articolo, puoi vederle, se ti piacesse, nel fine d’esso articolo, cioè
dalla metà della p.52. a tutta la p.53.).
Oggi l’uomo
è nella società quello ch’è una colonna d’aria rispetto a tutte le altre e a
ciascuna di loro. S’ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le
colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo nè più nè meno in tutti i
lati, tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l’uomo nella
società egoista. L’uno premendo l’altro, quell’individuo che cede in qualunque
maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto
di egoismo, dev’esser sicuro di esser subito calpestato dall’egoismo che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina
pneumatica dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l’aria.
(11.
Aprile 1821.)
A quello
che ho detto delle guerre antiche paragonate colle moderne, aggiungete che una
nazione intera potrà muover guerra per qualche causa ingiusta, (e ciò ancora
più difficilmente che il principe), ma non mai per un assoluto capriccio. Al
contrario il principe. Perchè molti non possono avere uno stesso capriccio,
essendo il capriccio una cosa relativa, e variabile, secondo le [931]teste,
e senza una causa uniforme di esistere. Così che la nazione non si può
accordare tutta intiera in un capriccio. Ma s’ella non ha bisogno di
convenirci, dipendendo già tutta intera da un solo, e questo solo avendo
capricci come gli altri perchè uomo, e più degli altri perchè padrone, e
potendo il suo capriccio disporre della guerra e della pace, e di tutto quello
che spetta a’ suoi sudditi; vedete quali sono le conseguenze; osservate se
combinino coi fatti, e poi anche ditemi se dalla possibilità del capriccio nel
mover guerra, segua che queste debbano esser più rare o più frequenti delle
antiche.
(11.
Aprile 1821.)
Non è
cosa più dispiacevole e dispettosa all’uomo afflitto, e oppresso dalla
malinconia, dalla sventura presente, o dal presente sentimento di lei, quanto
il tuono della frivolezza e della dissipazione in coloro che lo circondano, e l’aspetto
comunque della gioia insulsa. Molto più se questo è usato con lui, e soprattutto
s’egli è obbligato per creanza, o per qualunque ragione a prendervi parte.
La
stessa proporzionata disparità ch’è fra gli antichi e i moderni, in ordine al
bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità per l’una parte, e al
vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per l’altra parte; la
stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età antica o moderna,
fra i popoli meridionali e i settentrionali. Sebbene l’antichità era il tempo
del bello, [932]e della immaginazione, tuttavia anche allora la Grecia e
l’Italia ne erano la patria, e il luogo. E quantunque non fossero quei
tempi adattati alla profondità dell’intelletto, al vero, alla malinconia,
contuttociò ne’ Settentrionali si vede l’inclinazione loro naturale a queste
qualità, e negl’inni, nei canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si nota,
oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la
osservazione di certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia,
non sono le più triviali. Insomma vi si nota un carattere di pensiero
diversissimo nella profondità, da quello de’ meridionali degli stessi tempi.
(V. se vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere, Milano. vol.6. n.18. Giugno 1811.
Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni, p.376-378. e 383 fine - 385.
dove si riportano parecchi aforismi e documenti de’ Bardi.) Così per lo
contrario, sebbene l’età moderna è il tempo del pensiero, nondimeno il
settentrione ne è la patria, e l’Italia conserva tuttavia qualche poco
della sua naturale immaginazione, del suo bello, della sua naturale
disposizione alla letizia ed alla felicità. In quello dunque che ho detto de’
miei diversi stati, rispetto alla immaginazione e alla filosofia, paragonandomi
col successo de’ tempi moderni agli antichi, si può anche aggiungere il
paragone coi popoli meridionali e settentrionali.
(12.
Aprile 1821.)
L’estensione
reale e strettamente considerata, della quale è capace una lingua, in quanto
lingua [933]usuale, quotidiana, propria, e materna, è piccolissima; e
molto minore che non si crede. Una stretta conformità di linguaggio, e per
conseguenza una medesima lingua strettamente considerata, non è comune se non
ad un numero ben piccolo di persone, e non occupa se non un piccolo tratto
geografico.
1. Ognuno
sa e vede in quante lingue riconosciute, e scritte, e distinte con precisione,
sia divisa l’Europa, e il mondo, e come ciascuna nazione usi una lingua
differente precisamente dalle altre, e propria sua, sebbene possa aver qualche
maggiore o minore affinità colle forestiere.
2.
Diffondendosi una nazione, ed occupando un troppo largo tratto di paese, e
crescendo a un soverchio numero d’individui, l’esperienza continua dei secoli,
e la fede di tutte le storie, dimostra che la lingua di quella nazione si divide,
la conformità del linguaggio si perde, e per quanto quella nazione sia
veramente ed originariamente la stessissima, la sua lingua non è più una. Così
è accaduto alla lingua de’ Celti, diffusi per la Gallia, la Spagna, la
Bretagna, e l’Italia ec. con che la lingua celtica s’è divisa in tante lingue,
quanti paesi ha occupato la nazione. Così alla teutonica, alla slava ec. e fra
le orientali all’arabica, colla diffusione de’ maomettani.
3.
Sebbene un popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese
conquistato, e distrugga anche del tutto la lingua paesana, la sua
lingua in quel tal paese appoco appoco si altera, finattanto che torna a
diventare una lingua diversa dalla introdottaci. Testimoni i Romani, [934]la
cui lingua piantata colla conquista nella Francia e nella Spagna, (per non
estenderci ora ad altro) e distrutta intieramente la lingua indigena (giacchè
quei minimi avanzi che ne potessero ancora restare, non fanno caso), non fece
altro che alterandosi a poco a poco, finalmente emettere dal suo seno due
lingue da lei formalmente diverse, la francese, e la spagnuola. Lo stesso si
potrebbe dire d’infinite altre famiglie di lingue Europee, e non Europee, che
uscite ciascuna da una lingua sola, colla diffusione dei loro parlatori, si sono
moltiplicate e divise in tante lingue quante compongono quella tal famiglia.
4. Anche
dalle osservazioni precedenti si può dedurre, che questa impossibilità naturale
e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di
parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da
qualunque cagione), non è solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue
che guastino quella tal lingua che si estende, a misura che trova occupato il
posto da altre, e ne le caccia: ma che è un’impossibilità materiale, innata,
assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o muto,
quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividerebbe appoco appoco in
più lingue. E ciò intendo di confermare anche colle osservazioni seguenti.
5. Le
colonie che trasportano di pianta una lingua in diversi luoghi, portandovi i di
lei stessi parlatori [935]naturali, sono soggette alla stessa
condizione. Testimoni i tre famosi e principali dialetti delle colonie greche,
Jonico, Dorico, Eolico, per tacere d’infiniti altri esempi.
6. Ciò
non basta. Solamente che una nazione, senza occupare paesi discosti, e
forestieri, senza trasportarsi in altri luoghi, si dilati, e formi un corpo più
che tanto grande, la sua lingua, dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie
viscere, si divide, e si diversifica più o meno dalla sua primitiva, in
proporzione della distanza dal primo e limitato seggio della nazione, dalla
prima fonte della nazione e della lingua, la quale non si conserva pura se non
in quel preciso e ristretto luogo dov’ella fu primieramente parlata. Testimoni
i moltissimi dialetti minori ne’ quali era divisa la lingua greca dentro la
stessa Grecia, paese di sì poca estensione geografica, il Beotico, il Laconico,
il Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi i di lei
dialetti principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto, Cirenese,
Delfico, Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino, Siciliano,
Siracusano, Tarentino ec. (V. Sisti, Introduz. alla lingua greca §.211.)
Testimoni i dialetti della lingua italiana, della francese, della spagnuola,
della tedesca, e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè i loro parlatori
siano più che tanto estesi di numero e di paese. Che la lingua Ebraica fosse
distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche, dentro la stessa Cananea. v.
Iudic. c.12. vers.5-6. e quivi i comentatori. La lingua Caldaica ec. non è che
un Dialetto dell’Ebraica. La samaritana parimente; o l’ebraica è un dial. della
Samarit. o figlia o corruzione di essa. ec. De’ tre dialetti egiziani-coptici
tutti tre scritti, v. il Giorgi.
7.
Neppur questo è tutto. Ma dentro i confini di un medesimo ed unico dialetto,
non v’è città, il cui linguaggio non differisca più o meno, da quello medesimo
della città più immediatamente vicina. Non differisca dico, nel tuono e
inflessione e modulazione della pronunzia, nella inflessione e modificazione
diversa delle [936]parole, e in alcune parole, frasi, maniere,
intieramente sue proprie e particolari. Questo si vede nelle città di Toscana
(tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua scritta italiana, non solo non
si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì fiorentina), si vede nelle altre
città di qualunque provincia italiana, e dappertutto. Di più in ciascuna città,
il linguaggio cittadinesco è diverso dal campestre. Di più senza uscire dalla
città medesima, è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto,
secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi). Così che una lingua
non arriva ad essere strettamente conforme e comune, neppure ad una stessa
città, s’ella è più che tanto estesa, e popolata. E così credo che avverrà pure
in Parigi ec. V. p.1301. fine.
Da
questi dati caviamo alcune conseguenze più alte ed importanti. 1. Che la
diversità de’ linguaggi è naturale e inevitabile fra gli uomini, e che la
propagazione del genere umano portò con se la moltiplicità delle lingue, e la
divisione e suddivisione dell’idioma primitivo, e finalmente il non potersi
intendere, nè per conseguenza comunicare scambievolmente più che tanto numero
di uomini. La confusione de’ linguaggi che dice la Scrittura essere stato un
gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura,
e inevitabile nella generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle
nazioni ec.
2. Che
il progetto di una lingua universale, (seppure per questa s’è mai voluta
intendere una lingua propria e nativa e materna e quotidiana di tutte le
nazioni) è una chimera non solo materialmente, e relativamente, e per le
circostanze e le difficoltà che risultano dalle cose quali ora sono, [937]ossia
dalla loro condizione attuale, ma anche in ordine all’assoluta natura degli
uomini; vale a dire non solamente in pratica, ma anche in ragione.
3.
Considerando per l’una parte la naturale e inevitabile ristrettezza, che ho
detto, de’ confini di una lingua assolutamente uniforme; per l’altra parte, che
la lingua è il principalissimo istrumento della società, e che per distintivo
principale delle nazioni si suole assegnare la uniformità della lingua; ne
inferiremo
I. Una
prova di quello che ho detto p.873. fine-877. intorno alla ristrettezza delle
società primitive quanto all’estensione; cioè si conoscerà come la natura
avesse effettivamente provveduto anche per questa parte alla detta
ristrettezza.
II. Una
nuova considerazione intorno agli ostacoli che la natura avea posto all’incivilimento.
Giacchè l’incivilimento essendo opera della società, e andando i suoi progressi
in proporzione della estensione di essa società e del commercio scambievole
ec.; e per l’altra parte, l’istrumento principale della società essendo la
lingua, e questa avendo fatto la natura che non potesse essere uniforme se non
fra pochissimi; si viene a conoscere come anche per questa parte la natura si
sia opposta alla soverchia dilatazione e progresso della società, ed all’alterazione [938]degli uomini che ne aveva a seguire. Opposizione che non si è
vinta, se non con infinite difficoltà, con gli studi, e con cento mezzi niente
naturali, facendo forza alla natura, come si sono superate tutte le altre
barriere che la natura avea poste all’incivilimento e alla scienza.
III.
Come la società, così anche la lingua fa progressi coll’estensione: e la lingua
di un piccolo popolo, è sempre rozza, povera, e bambina balbettante, se non in
quanto ella può essere influita dal commercio coi forestieri, che è fuori anzi
contro il caso. Si vede dunque che la natura coll’impedire l’estensione di una
lingua uniforme, ne ha voluto anche impedire il perfezionamento, anzi anche la
semplice maturità o giovanezza. Da ciò segue che la lingua destinata dalla
natura primitivamente e sostanzialmente agli uomini, era una lingua di
ristrettissime facoltà, e quindi di ristrettissima influenza. Dunque segue che
essendo la lingua l’istrumento principale della società, la società destinata
agli uomini dalla natura, era una società di pochissima influenza, una società
lassa, e non capace di corromperli, una società poco maggiore di quella ch’esiste
fra i bruti, come ho detto in altri pensieri.
IV. Colla debolezza della lingua destinataci, la
natura avea provveduto alla conservazione del nostro stato primitivo, non solo
in ordine alla generazione contemporanea, [939]ma anche alle passate e
future. Mediante una lingua impotente, è impotente la tradizione; e le
esperienze, cognizioni ec. degli antenati arrivano ai successori, oscurissime
incertissime debolissime e più ristrette assai di quelle ristrettissime che con
una tal lingua e una tal società avrebbero potuto acquistare i loro antenati;
cioè quasi nulle. Perchè i bruti non avendo lingua, non hanno tradizione, cioè
comunicazione di generazioni, perciò il bruto d’oggidì è freschissimo e
naturalissimo come il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore.
Tali dunque saremmo noi appresso a poco, con una lingua limitatissima nelle sue
facoltà. Il fatto lo conferma. Tutti i popoli che non hanno una lingua
perfetta, sono proporzionatamente lontani dall’incivilimento. V. p.942.
capoverso 1. E finchè il mondo non l’ebbe, conservò proporzionatamente lo stato
primitivo. Così pure in proporzione, dopo l’uso della scrittura dipinta, e
della geroglifica. L’incivilimento, ossia l’alterazione dell’uomo, fece grandi
progressi dopo l’invenzione della scrittura per cifre, ma però sino a un certo segno,
fino all’invenzione della stampa, ch’essendo la perfezione della tradizione,
ha portato al colmo l’incivilimento. Invenzioni tutte difficilissime, e
soprattutto la scrittura per cifre; onde si vede quanto la natura fosse lontana
dal supporle, e quindi dal volere e ordinare i loro effetti.
E
questo si può riferire a quello che ho detto [940]in altri pensieri
contro coloro che considerano l’incivilimento come perfezionamento, e quindi
sostengono la perfettibilità dell’uomo. Il quale incivilimento apparisce e
dalla ragione e dal fatto che non si poteva conseguire, e molto meno
perfezionare senza l’invenzione della scrittura per cifre; invenzione
astrusissma, e mirabile a chi un momento la consideri, e della quale gli uomini
hanno dovuto mancare, non già casualmente, ma necessariamente per lunghissima
serie di secoli, com’è accaduto. Torno dunque a domandare se è verisimile che
la natura alla perfezione di un essere privilegiato fra tutti, abbia supposto e
ordinato un tal mezzo ec. ec. Lo stesso dico del perfezionamento di una lingua,
cosa anch’essa difficilissima e tardissima a conseguirsi, e intendo ora, non
quello che riguarda la bellezza, ma la semplice utilità di una lingua. Lo
stesso altresì della stampa inventata 4 soli secoli fa, non intieri. ec. ec. V.
p.955. capoverso 1. e il mio pensiero circa la diversità degli alfabeti
naturali.
Altro
è la perfettibilità della società, altro quella dell’uomo ec. ec. ec.
Quello
che ho detto in parecchi pensieri della compassione che eccita la debolezza, si
deve considerare massimamente in quelli che sono forti, e che sentono in quel
momento la loro forza, e ne’ quali questo sentimento contrasta coll’aspetto
della debolezza o impotenza di quel tale oggetto amabile o compassionevole:
amabilità che in [941]questo caso deriva dalla sorgente della
compassione, quantunque quel tale oggetto in quel punto non soffra, o non abbia
mai sofferto, nè provato il danno della sua debolezza. Al qual proposito si ha
una sentenza o documento de’ Bardi Britanni rinchiusa in certi versi che
suonano così: Il soffrire con pazienza e magnanimità, è indizio sicuro di
coraggio e d’anima sublime; e l’abusare della propria forza è segno di codarda
ferocia. (Annali di Scienze e Lettere l. cit. di sopra (p.932.) p.378.) L’uomo
forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal
sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l’altrui debolezza,
e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di
sentire l’amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri. Ed
egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli,
ancorchè giustamente.
A quello
che ho detto altrove della derivazione del verbo tornare, si aggiunga,
che questo verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il quale
significa la stessa cosa che in latino volvere. Giacchè appunto nello
stesso modo, da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che
significa tornare.
(13.
Aprile 1821.)
[942]Alla p.939. La maravigliosa e
strana immobilità ed immutabilità (così la chiama l’Edinburgh Review
negli Annali di Scien. e Lettere vol.8. Dicembre 1811. n.24 Staunton, Traduz.
del Ta-Tsing-Leu-Lee. p.300.) della nazione Chinese, dev’esser derivata certo
in grandissima parte, e derivare dal non aver essi alfabeto nè lettere, (l.
cit. Rémusat, Saggio sulla lingua e letteratura Chinese, dal Magasin
Encyclopédique, p.324. fine) ma caratteri esprimenti le cose e le idee cioè un
dato numero di caratteri elementari e principali rappresentanti le principali
idee, i quali si chiamano chiavi, e sono nel sistema di alcuni dotti Chinesi
214, (ivi p.313.319) in altri sistemi molto più, in altri molto meno, (ivi
p.319.) ma il sistema delle 214 è il più comune e il più seguito da’ letterati
chinesi nella compilazione de’ loro dizionarii. I quali caratteri elementari o
chiavi diversamente combinati fra loro (come ponendo sopra la chiave che
rappresenta i campi, l’abbreviatura di quella che rappresenta le piante,
si fa il segno o carattere che significa o rappresenta primizia dell’erbe e
delle messi; e ponendo questo medesimo carattere sotto la chiave che
rappresenta gli edifizi, si fa il carattere che significa tempio,
cioè luogo dove si offrono le primizie (l. cit. p.314.)) servono ad esprimere o
rappresentare le altre idee: essendo però le dette combinazioni convenute, e
gramaticali, come lo sono le chiavi elementari; altrimenti non s’intenderebbero.
(p.319. fine.)
Nel qual
modo e senso un buon dizionario chinese, secondo Abel-Rémusat (Essai sur la
langue et la littérature chinoise. Paris 1811. l. cit. p.320.) dovrebbe
contenere 35,000 [943]caratteri come ne contiene il
Tching-tseu-toung, uno de’ migliori Dizionari che hanno i chinesi; secondo il
Dott. Hager, (Panthéon Chinois. Paris 1806. in-fol. Préface.) basterebbero
10,000 (ivi, e p.311. nota.) La quale scrittura in somma appresso a poco è la
stessa che la ieroglifica. Paragonate gli Annali ec. sopracitati, vol.5.
num.14. Hammer, Alfabeti antichi e caratteri ieroglifici spiegati, artic. del
Crit. Rew. p.144.-147. col vol.8. n.24. p.297.-298. e p.313. 320. Questo
paragone l’ho già fatto, e trovatolo giusto.
La
lingua chinese è tutta architettata e fabbricata sopra un sistema di composti,
non solo quanto ai caratteri, de’ quali v. il pensiero precedente ma parimente
alla pronunzia, ossia a’ vocaboli. Giacchè i loro vocaboli radicali esprimenti
i caratteri non sono più di 352. secondo il Bayer, e 383. secondo il Fourmont.
Ed eccetto che il valore di alcuni di questi vocaboli si diversifica talvolta
per via di quattro toni, dell’uno dei quali si appone loro il segno (Annali ec.
p.317.-318. e 320. lin.7.), tutti gli altri vocaboli Chinesi sono composti;
come si vede anche nella maniera in cui si scrivono quando si trasportano
originalmente nelle nostre lingue. Annali ec. l. cit. nel pensiero anteced.
Rémusat p.319. mezzo-320. mezzo.
(14.
Aprile 1821.). V. p.944. capoverso 1.
Alla
p.923. marg. Un tal popolo dev’essere insomma necessariamente stazionario. E qual
popolo infatti è più maravigliosamente stazionario del Chinese, (v. qui dietro
p.942. princip.) nel quale abbiamo osservato una somigliante costituzione? Sir
George (Giorgio) Staunton, Segretario d’Ambasciata nella missione di Lord
Macartney presso l’Imperatore della China, nella introduzione alla sua versione
inglese del Codice penale dei Chinesi, nota in questa nazione, come [944]fra
le cause di certi ragguardevoli vantaggi morali e politici posseduti,
secondo lui, da essa nazione, vantaggi che non possono, secondo lui, essere
agguagliati con esattezza in alcuna società Europea, nota, dico, la
quasi totale mancanza di dritti e privilegi feudali; la equabile distribuzione
della proprietà fondiaria; e LA NATURALE INCAPACITÀ ED AVVERSIONE E DEL
POPOLO E DEL GOVERNO AD ESSERE SEDOTTI DA MIRE D’AMBIZIONE, E DA DESIO D’ESTERE
CONQUISTE. Edinburgh Review loco citato qui dietro (p.942. principio.) p.295.
Lo stesso Edinburgh Review nella continuazione dello stesso articolo (Annali di
Sc. e Lettere. Milano. Gennaio 1812. vol. IX. n.25. p.42. mezzo) nomina (ad
altro proposito) la istituzione delle caste dell’India, dove io l’ho già
notata nel pensiero a cui questo si riferisce, e di più nell’antico Egitto.
Questo lo fa incidentemente, sicchè non ha verun’altra parola su questo punto.
(14.
Aprile 1821.)
Alla
p.943. Così che la lingua Chinese quanto supera le altre lingue nella
moltiplicità, complicazione, e confusione degli elementi e della costruttura
della scrittura, tanto le avanza nella semplicità e piccolo numero degli
elementi dell’idioma.
(14.
Aprile 1821.)
Alla
p.943. In somma la scrittura Chinese non rappresenta veramente le parole (che
le nostre son quelle che le rappresentano, e ciò per via delle lettere, che
sono ordinate e dipendenti in tutto dalla parola) ma le cose; e perciò tutti
osservano [945]che il loro sistema di scrittura è quasi indipendente
dalla parola: (Annali ec. p.316. p.297.) così che si potrebbe trovare
qualcuno che intendesse pienamente il senso della scrittura chinese, senza
sapere una sillaba della lingua, e leggendo i libri chinesi nella lingua
propria, o in qual più gli piacesse, cioè applicando ai caratteri cinesi quei
vocaboli che volesse, senza detrimento nessuno della perfetta intelligenza
della scrittura, e neanche del suo gusto, giacchè le opere chinesi non
hanno nè possono avere nè versificazione, nè ritmo, nè stile, e conviene
prescindere affatto dalle parole nel giudicarle; le loro poesie non sono
composte di versi, nè le prose oratorie di periodi; (p.297.) il genio
della lingua non ammette il soccorso delle comuni particelle di connessione, e
presenta meramente una fila d’immagini sconnesse, i cui rapporti debbono essere
indovinati dal lettore, secondo le intrinseche loro qualità. ([p.] 298.)
E così viceversa bene spesso taluni, dopo avere soggiornato venti anni alla
China, non sono tampoco in grado di leggere il libro più facile, benchè
sappiano essi parlar bene il chinese, e farsi comprendere. (p.316.).
(14.
Aprile 1821.)
Si
condanna, e con gran ragione, l’amor de’ sistemi, siccome dannosissimo al vero,
e questo danno tanto più si conosce, e più intimamente se ne resta convinti,
quanto più si conoscono e si esaminano le opere dei pensatori. Frattanto però
io dico che qualunque uomo ha forza di pensare da se, qualunque s’interna colle
sue proprie facoltà e, dirò così, co’ suoi propri passi, nella considerazione
delle cose, in somma qualunque vero pensatore, non può assolutamente a meno di
non formarsi, o di non seguire, o generalmente di non avere un sistema.
[946]1. Questo è chiaro dal fatto.
Qualunque pensatore, e i più grandi massimamente, hanno avuto ciascuno il loro
sistema, e sono stati o formatori o sostenitori di qualche sistema, più o meno
ardenti e impegnati. Lasciando gli antichi filosofi, considerate i moderni più
grandi. Cartesio, Malebranche, Newton, Leibnizio, Locke, Rousseau, Cabanis,
Tracy, De Vico, Kant, in somma tutti quanti. Non v’è un solo gran pensatore che
non entri in questa lista. E intendo pensatori di tutti i generi: quelli che
sono stati pensatori nella morale, nella politica, nella scienza dell’uomo, e
in qualunque delle sue parti, nella fisica, nella filosofia d’ogni genere,
nella filologia, nell’antiquaria, nell’erudizione critica e filosofica, nella
storia filosoficamente considerata ec. ec.
2. Come
dal fatto così è chiaro anche dalla ragione. Chi non pensa da se, chi non cerca
il vero co’ suoi propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un’altra
a quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come
possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e
contentarsi delle verità particolari, e staccate, e indipendenti l’una dall’altra.
E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e la ragione dimostra, che
anche questi tali si formano sempre un sistema comunque, sebbene possano forse
talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le nuove cognizioni, o nuove
opinioni che loro sopraggiungano. Ma il pensatore non è così. Egli cerca
naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È
impossibile [947]ch’egli si contenti delle nozioni e delle verità del
tutto isolate. E se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima,
e meschinissima, e non otterrebbe nessun risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l’estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità.
Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col
mezzo del generalizzare. Non è ella, cosa notissima che la facoltà di
generalizzare costituisce il pensatore? Non è confessato che la filosofia
consiste nella speculazione de’ rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di
passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità (cosa inseparabile
dalla facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose; cerca un sistema; e chiunque
è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha
trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la
persuasione di un sistema già prima trovato o proposto: un sistema più o meno
esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico, e consentaneo nelle
sue parti.
3. Il
male è quando dai generali si passa ai particolari, cioè dal sistema alla
considerazione delle verità che lo debbono formare. Ovvero quando da pochi ed
incerti, e mal connessi, ed infermi particolari, da pochi ed oscuri rapporti,
si passa al sistema, ed ai generali. Questi sono i vizi de’ piccoli spiriti,
parte per la loro stessa piccolezza, e la facilità che hanno di persuadersi;
parte per la pestifera smania di formare sistemi, inventar paradossi, creare
ipotesi in qualunque maniera, affine [948]d’imporre alla moltitudine, e
parer d’assai. Allora l’amor di sistema, o finto, o vero e derivante da
persuasione, è dannosissimo al vero; perchè i particolari si tirano per forza
ad accomodarsi al sistema formato prima della considerazione di essi
particolari, dalla quale il sistema dovea derivare, ed a cui doveva esso
accomodarsi. Allora le cose si travisano, i rapporti si sognano, si considerano
i particolari in quell’aspetto solo che favorisce il sistema, in somma le cose
servono al sistema, e non il sistema alle cose, come dovrebb’essere. Ma che le
cose servano ad un sistema, e che la considerazione di esse conduca il filosofo
e il pensatore ad un sistema (sia proprio, sia d’altri), è non solamente
ragionevole e comune, ma indispensabile, naturale all’uomo, necessario; è
inseparabile dalla filosofia; costituisce la sua natura ed il suo scopo: e
concludo che non solamente non ci fu, ma non ci può esser filosofo nè pensatore
per grande, e spregiudicato, ed amico del puro vero, ch’ei possa essere, il
quale non si formi o non segua un sistema (più o meno vasto secondo la materia,
e secondo che l’ingegno del filosofo è sublime, e secondo ch’è acuto e
penetrante nella investigazione speculazione e ritrovamento de’ rapporti) e ch’egli
non sarebbe filosofo nè pensatore, se questo non gli accadesse, ma si
confonderebbe con chi non pensa, e si contenta di non avere idea nè concetto
chiaro e stabile intorno a veruna cosa. (I quali pure hanno sempre un sistema,
più o meno chiaro, anzi più esteso, e per loro più persuasivo e più chiaro e
certo, che non l’hanno i pensatori.) Sia [949]pure un sistema il quale
consista nell’esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e quello
che fa quasi il carattere del nostro secolo.
Dalla
sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione
che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle. Poniamo
per esempio un’opera scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch’è utile,
anzi dicono che la bellezza non le conviene. Ed io dico che se non è bella, e
quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima
in tutto il resto. Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch’è un
trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima
di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e
semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è chiaro, preciso, perchè
ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze convengono a qualunque
libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il rigore di questo
termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per questo lato è
cattivo, e non v’è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere
perfettamente buono, e l’esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che dico
dei libri, si deve estendere a tutti [950]gli altri generi di cose
chiamate utili, e generalmente a tutto.
(16.
Aprile 1821.)
Rassegnato
e sommesso, perchè l’indole degli abitatori determinata dall’influenza del
clima, è composta a un tempo di bontà e di trascuratezza, l’Indiano, dice l’Autore
(Collin di Bar, Storia dell’India antica e moderna, ossia l’Indostan
considerato relativamente alle sue antichità ec. Parigi 1815.), è capace de’
più magnanimi sforzi. I popoli del nord della penisola, meno ammolliti
dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo il terrore della compagnia
inglese, e saranno forse col tempo i liberatori delle regioni gangetiche. (Fra
questi deve intender certo i Maratti.) Spettatore di Milano, Quaderno 43.
p.113. Parte Straniera. 30. Dicemb. 1815. Dello stato e genio pacifico degli
antichi Indiani v. p.922. De’ Cinesi parimente meridionali v. p.943. capoverso
ultimo.
(16.
Aprile 1821.)
Alla
p.949. Mancare assolutamente di sistema (qualunque esso sia), è lo stesso che
mancare di un ordine di una connessione d’idee, e quindi senza sistema, non vi
può esser discorso sopra veruna cosa. Perciò quelli appunto che non discorrono,
quelli mancano di sistema, o non ne hanno alcuno preciso. Ma il sistema, cioè
la connessione e dipendenza delle idee, de’ pensieri, delle riflessioni, delle
opinioni, è il distintivo certo, e nel tempo stesso indispensabile del
filosofo.
Lo
Spettatore di Milano 15. Febbraio 1816. Quaderno 46. p.244. Parte Straniera, in
un articolo estratto dal Leipziger Litter. Zeitung, rendendo brevissimo
conto di un opuscolo [951]tedesco di Pietro Enrico Holthaus, intitolato Anche
nella nostra lingua possiamo e dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a
Schwelm, presso Scherz, 1814. in 8° grande, dice che, fra le altre cose, l’autore
intende provare Che il miscuglio di parole straniere reca nocumento alla
chiarezza delle idee. (L’opuscolo è diretto principalmente contro il
francesismo introdotto e trionfante nella lingua tedesca, come nell’italiana.)
Questo sentimento combina con quello che ho svolto in altri pensieri, dove ho
detto che le parole greche nelle nostre lingue sono sempre termini, e
così si deve dire delle altre parole straniere affatto alla nostra lingua; e
spiegato che cosa sieno termini e come si distinguano dalle parole. E
infatti i termini, e le parole prese da una lingua straniera del tutto,
potranno essere precise, ma non chiare, e così l’idea che risvegliano
sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè quelle parole non esprimono
la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle qualità della cosa, come le
parole originali di qualunque lingua, così che l’oggetto che esprimono, sebbene
ci si possa per mezzo loro affacciare alla mente con precisione e
determinazione, non lo potranno però con chiarezza: perchè le parole non
derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che almeno per l’assuefazione
non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare nella nostra mente un’idea sensibile
della cosa, non hanno [952]forza di farci sentire la cosa in
qualunque modo, ma solamente di darcela precisamente ad intendere, come si fa
di quelle cose che non si possono formalmente esprimere. Che tale appunto è il
caso degli oggetti significatici con parole del tutto straniere. Dal che è
manifesto quanto danno riceva sì la chiarezza delle idee, come la bellezza e la
forza del discorso, che consistono massimamente nella sua vita, e questa vita
del discorso, consiste nella efficacia, vivacità, e sensibilità, con cui
esso ci fa concepire le cose di cui tratta.
(17.
Aprile 1821.)
Lo
stesso autore nel medesimo opuscolo, come si vede nel luogo citato, alla fine
della detta pag.244. critica Herder che tante parole ha introdotto tolte dal
latino e dal greco. Questa critica è forse giusta anche rispetto al latino,
nella lingua tedesca, la quale non si trova nella circostanza della italiana,
non essendo figlia, come questa, della latina; come neanche rispetto alla
francese, non essendole sorella, come la nostra. E quanto alla latina, le deve
bastare quello che per le circostanze de’ tempi antichi ec. ella ne ha tolto,
colle comunicazioni avute coi romani ec. ma questa fonte si deve ora ben ragionevolmente
stimar chiusa per lei, come quella che non ne deriva originariamente, e vi ha
solo attinto per cause accidentali. La lingua inglese sarebbe la più atta a
comunicare le sue fonti colla tedesca, e viceversa. V. p.1011. capoverso 2. Ma
rispetto alla lingua italiana, la cosa sta diversamente, perchè derivando ella
dalla latina, non si dee stimare che la fonte sia chiusa, mentre il fiume corre
e non istagna. Anzi non volendo che stagni e impaludi, bisogna riguardare
soprattutto di non chiudergli la sorgente; che questo è il mezzo più sicuro e
più breve di farlo corrompere e inaridire. Quella lingua che ha prodotta, e non
solo prodotta, ma formata e cresciuta sì largamente la nostra. come si [953]dovrà
stimare che non possa nutrirla ed accrescerla, che non abbia più niente che le
convenga di ricavarne? Quel terreno che ha prodotto una pianta della sua
propria sostanza, e del proprio succo, e di più l’ha allevata, e condotta a
perfettissima maturità e robustezza e vigore ec. come si dovrà credere e
affermare che non sia adattato a nutrirla e crescerla mentre ella non è
spiantata? che il di lui succo non sia conveniente nè vitale nè nutritivo nè
sano a quella pianta, mentre il terreno abbia ancora succo, e in abbondanza?
Perchè poi vorremmo spiantare la nostra lingua? Forse perch’ella non possa più
nutrirsi, e le sue radici non le servano più, e così venga ad inaridire? O
forse per trapiantarla? E dove? in qual terreno migliore, e più appropriato di
quello che l’ha prodotta e cresciuta a tanta grandezza, prosperità, floridezza
ec.?
Osservo
ancora che l’italiano è derivato dalla corruzione del latino, così che le
parole e i modi della bassa latinità, se sono barbare rispetto al latino, nol
sono all’italiano; e la bassa latinità è una fonte ricchissima e adattatissima
anch’essa alla nostra lingua, ed io posso dirlo con fondamento per osservazione
ed esperienza particolare che ne ho fatto, e cura che ci ho posto. Quante
parole infatti dell’ottima lingua italiana, appartengono precisamente alla
bassa latinità! Nè bisogna discorrere pregiudicatamente e considerar come
barbaro assoluto quello ch’è solo barbaro relativo. Per esempio [954]l’antica
lingua persiana, cioè prima che fosse inondata da parole arabe per effetto
della conquista della Persia fatta dai Califi e dagl’immediati successori di
Maometto,
fu lingua purissima, fu scritta purissimamente ebbe gran cura della purità
nella scrittura, ed ebbe autori Classici non meno stimati in Oriente una
volta per la purità della lingua, di quello che il fosse Menandro fra i
greci. (ma de’ cui scritti la più gran parte è perita.) E Firdosi
nel suo Shahnamah, e molti de’ suoi contemporanei, si vantano di usare il
pretto Persiano, e di esser mondi da ogni parola araba o forestiera (così
che nel Dizionario di Richardson mancano nove decimi delle parole da essi
usate, per esser questo Dizionario fatto per la lingua e i dialetti persiani
moderni.) Ora qualunque purissima parola persiana, o di qualunque purissima
lingua d’oriente, antica o moderna, parrebbe a noi, non solo impura, o barbara,
ma intollerabile, suonerebbe peggio che barbaramente, e ci saprebbe più che
barbara nelle lingue nostre. Così dunque se le parole della bassa latinità
riescono barbare nel latino, non si debbono stimare nè barbare nè impure in
italiano, il quale deriva dalla bassa latinità più immediatamente che dalla
alta. Altrimenti si dovranno stimar barbare tante parole purissime e
italianissime che derivano dalla bassa latinità (e così dico francesi ec.), e
come tali sono registrate ne’ Glossari latinobarbari.
Bensì
bisogna distinguere i diversi generi che ci sono di bassa latinità. Giacchè la
bassa latinità germanica per esempio, in quanto è piena di voci germaniche ec.
sarà adattata a somministrar materia ad altre lingue, ma non alla nostra. E
perciò bisogna considerare che l’indole [955]delle parole e frasi ec.
del medio evo, sia conforme all’indole di quel linguaggio dal quale è derivata
la lingua italiana precisamente.
(17.
Aprile 1821.)
Alla
p.940. Quello che ho detto delle lingue rispetto ai luoghi, si deve applicare
proporzionatamente anche ai tempi, essendo certo ed evidente che le lingue
vanno sempre variando, non già leggermente, ma in modo che alla fine muoiono, e
loro ne sottentrano altre, secondo la variazione dei costumi, usi, opinioni ec.
e delle circostanze fisiche, politiche, morali, ec. proprie dei diversi secoli
della società. In maniera che si può dire che come nessuna lingua è stata, così
neanche nessun’altra sarà perpetua.
L’antichità
e l’eccellenza della lingua sacra degl’indiani (sascrita), hanno naturalmente
chiamato a se l’attenzione e destato la curiosità degli Europei. I
ragguardevoli suoi titoli ad essere considerata come la più antica lingua che l’uman
genere conosca, muovono in noi quell’interesse da cui le vetustissime età del
mondo sono circondate. Costruita secondo il disegno più perfetto forse che dall’ingegno
umano sia stato immaginato giammai, essa c’invita a ricercare se la sua
perfezione si restringa ne’ limiti della sua struttura, o se i pregi delle composizioni
indiane partecipino della bellezza del linguaggio in cui sono dettate.
Spettatore di Milano 15. Luglio 1817. Quaderno 80. parte straniera. p.273.
articolo di D. Bertolotti sopra la traduzione inglese del Megha [956]Duta,
poema sascrittico di Calidasa, Calcutta 1814. estratto però senza fallo da un
giornale forestiero, e non dalla stessa traduzione, come apparisce in parecchi
luoghi, e fra l’altro da’ puntini che il Bertolotti pone dopo alcuni paragrafi
di esso articolo, come p.274.275. ec.
(18. Aprile
1821.)
La
lingua greca va considerata rispetto all’italiana nell’ordine di lingua madre,
(o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle parole. Dico quanto ai modi,
massimamente per la sua conformità naturale o somiglianza in questa parte colla
lingua latina sua sorella, e madre della nostra, e di più perchè gli scrittori
latini, dal nascimento della loro letteratura, modellarono sulla greca le forme
della loro lingua, e così hanno tramandata a noi una lingua formata in
grandissima parte sui modi della greca. Del che vedi un ell’articolo del Barone
Winspear (Bibliot. Ital. t.8. p.163.) nello Spettatore di Milano, 1. Settembre
1817. Parte italiana, Quaderno 83. p.442. dal mezzo al fine della pagina. E
così pure, parte per lo studio immediato de’ greci esemplari, (del che vedi ivi
p.443. dal principio al mezzo) parte per lo studio de’ latini, e la derivazione
della lingua italiana dalla latina, parte e massimamente per una naturale
conformità, che forse per accidente, ha la struttura e costruzione della lingua
nostra colla greca (come dice espressamente la Staël nella B. Italiana [957]vol.1.
p.15. la costruzione gramaticale di quella lingua è capace di una perfetta
imitazione de’ concetti greci, a differenza della tedesca della quale ha
detto il contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima e
somma affinità fra l’andamento greco e l’italiano, massime nel più puro
italiano, e più nativo e vero, cioè in quello del trecento. Da tutto ciò segue
che la lingua greca, come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per
ragione e per fatto adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana
d’infinite e variatissime forme e frasi e costrutti (Cesari) e idiotismi ec.
Non così quanto alle parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che
non è madre della nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli
scrittori o l’uso latino ne derivarono, e divenute precisamente latine,
passarono all’idioma nostro come latine e con sapore latino, non come greche.
Le quali però ancora, sebbene incontrastabili all’uso dell’italiano, tuttavia
soggiacciono in parte, malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai
difetti notati da me p.951-952. Che p.e. chi dice filosofia eccita un’idea
meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella
parola e non sentendosi come in questa seconda, l’etimologia, cioè la
derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la
vivezza ed efficacia, [958]e limpida evidenza dell’idea, quando si
ascolta una parola.
Una
delle principali cagioni per cui l’infelicità rende l’uomo inetto al fare, e lo
debilita e snerva, onde l’infelicità toglie la forza, non è altra se non che l’infelicità
debilita l’amor di se stesso. E intendo massimamente della infelicità grave e
lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all’amor di se stesso che era
nel paziente, colla battaglia ostinatissima e fortissima che gli fa, e coll’obbligarlo
ad uno stato contrario del tutto a quello ch’è scopo, oggetto e desiderio di
questo amore, finalmente illanguidisce questo amore, rende l’uomo meno tenero
di se stesso, siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci
opponeva. Anzi una tale infelicità, se non riduce l’uomo alla disperazion viva,
e al suicidio o all’odio di se stesso ch’è il sommo grado, e la somma intensità
dell’amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno
stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s’egli
continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com’era da principio,
in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo
e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la
sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l’amor
di se stesso è l’unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani,
secondo ch’è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o
basso ec. [959]Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo
(cioè a quanto meno è possibile mentre l’uomo vive) l’elasticità e la forza di
molla, l’uomo non è più capace nè di azioni, nè di sentimenti vivi e forti ec.
nè verso se stesso, nè verso gli altri, giacchè anche verso gli altri, anche ai
sacrifizi ec. non lo può spingere altra forza che l’amor proprio, in quella tal
guisa applicato e diretto. E così l’uomo ch’è divenuto per forza indifferente
verso se stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all’inazione fisica e
morale. E l’indebolimento dell’amor proprio, in quanto amor proprio e
radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte) cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell’indebolimento della virtù, dell’entusiasmo,
dell’eroismo, della magnanimità, di tutto quello che sembra a prima vista il
più nemico dell’amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamento per
trionfare e manifestarsi, il più contrariato e danneggiato dalla forza dell’amore
individuale. Così il detto indebolimento secca la vena della poesia, e dell’immaginazione,
e l’uomo non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non
sentendo il proprio affetto, non sente più la natura, nè l’efficacia della
bellezza ec. Una nebbia grevissima d’indifferenza sorgente immediata d’inazione
e insensibilità, si spande su tutto l’animo suo, e su tutte le sue facoltà, da
che [960]egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell’oggetto ch’è il solo capace d’interessarlo e di muoverlo moralmente o
fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra
cagione dello snervamento prodotto nell’uomo dall’infelicità, è la diffidenza
di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com’è vivifica e
principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se stesso:
e questa è una qualità primitiva e naturale nell’uomo e nel vivente, innanzi all’esperienza.
ec. ec. Così pure l’uomo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza delle
avversità e delle contraddizioni e avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima
di se stesso, non è più buono a niente di grande nè di magnanimo. E dicendo la
stima, distinguo questa qualità dalla confidenza, ch’è cosa ben diversa
considerandola bene.
(19.
Aprile 1821.)
Le
sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità, e
semplicizzare l’idea che abbiamo del sistema delle cose umane, o la teoria dell’uomo,
facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze
possibili della vita, agisca quell’unico principio ch’è l’amor proprio, e come
tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor
forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente:
per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da
diverse cagioni.
(19.
Aprile 1821.)
[961]Alla p.786. E prima della potenza
Ateniese e degl’incrementi di quella repubblica, essendo il dialetto ionico il
più copioso, come pare, di tutti gli altri nello stato d’allora, per lo molto
commercio della nazione o nazioni e repubbliche che l’usavano, prevalse il
dialetto ionico nella letteratura greca, usato da Omero, da Ecateo Milesio
istorico antichissimo, ed anteriore ad Erodoto che molto prese da lui, da
Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e da molti altri di gran fama. Così che
Giordani crede (B. Ital. vol. 2. p.20.) che Empedocle (il quale parimente
scrisse in quel dialetto) lasciasse di adoperare il dialetto (dorico) della sua
patria e della sua scuola (Pitagorica) non perchè fosse o più difficile o meno
gradito ai greci, ma perchè vedesse più frequentato fuori della Grecia l’ionico,
al quale Omero, Erodoto e Ippocrate avevano acquistata più universale
celebrità. Di maniera che ancor dopo prevaluto l’attico si seguitò da alcuni a
scrivere ionico, non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria
della sua antica fama. Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della
Impresa di Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro
delle cose indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio. Ora questo
dialetto ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti
i dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene perÜÞdeÇn lib. II. p.513. notat Hecataeum Milesium a quo
plurima accepit Herodotus (notante etiam Porphyr. ap. Eus. l.10. praep.
c.2. p.466.) usum Žkr‹tÄ'I‹di, Herodotum poikÛlh+:. (Fabric. B. G. II. c.20. §.2. t. I. 697. nota K.) cioè l’uno del
dialetto ionico puro, l’altro del dialetto ionico variato o misto. E
contuttociò Erodoto è chiamato [962]dal suo concittadino Dionigi d’Alicarnasso
(Epist. ad Cneium Pompeium p.130. Fabric.) 'I‹dow
ristow kanÆn.
Sono
perciò rare tra’ francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche
volgarizzate dall’abate De-Lille. I nostri traduttori imitan bene; tramutano in
francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere, ma non
trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua origine, e serbi le sue
sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non possa mai farsi. E se
degnamente ammiriamo la georgica dell’abate De-Lille, n’è cagione quella
maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui
mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla
francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni
decoro. Staël, B. Ital. vol.1. p.12. Esaminiamo.
Che la
traduzione del Delille sia migliore d’ogni altra traduzione francese qualunque
(in quanto traduzione), di questo ne possono e debbono giudicare i francesi
meglio che gli stranieri. Se poi fatto il paragone tra la detta traduzione e l’originale,
vi si trovi tutta quella conformità ed equivalenza che i francesi stimano di
ravvisarvi (quantunque concederò che se ne trovi tanta, quanta mai si possa
trovare in versione francese) questo giudizio spetta piuttosto agli stranieri
che a’ francesi, e noi italiani massimamente siamo meglio [963]a portata,
che qualsivoglia altra nazione, di giudicarne.
Siccome
ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più familiare, così
ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in
qualunque lingua. Come il pensiero, così il sentimento delle qualità spettanti
alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a noi
usuale. I modi, le forme, le parole, le grazie, le eleganze, gli ardimenti
felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che può spettare alla
lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in
male) non si sente mai nè si gusta se non in relazione colla lingua familiare,
e paragonando più o meno distintamente quella frase straniera a una frase
nostrale, trasportando quell’ardimento, quella eleganza ec. in nostra lingua.
Di maniera che l’effetto di una scrittura in lingua straniera sull’animo
nostro, è come l’effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera
oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli
oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle con
esattezza; sicchè tutto l’effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che
dall’oggetto reale. Così dunque accadendo rispetto alle lingue (eccetto in coloro
che sono già arrivati o a rendersi familiare un’altra lingua invece della
propria, o a rendersene familiare e quasi propria più d’una, con grandissimo
uso [964]di parlarla, o scriverla, o leggerla, cosa che accade a
pochissimi, e rispetto alle lingue morte, forse a nessuno) tanto adequatamente
si potranno sentire le qualità delle lingue altrui, quanta sia nella propria,
la facoltà di esprimerle. E l’effetto delle lingue altrui sarà sempre in
proporzione di questa facoltà nella propria. Ora la facoltà di adattarsi alle
forme straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo
si può stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere, in coloro
che adoprano la francese.
Notate
ch’io dico, gustare e sentire, non intendere nè conoscere. Questo è opera dell’intelletto
il quale si serve di altri mezzi. E quindi i francesi potranno intendere e
conoscer benissimo le altre lingue, senza però gustarle nè sentirle più che
tanto.
Ho detto
che gl’italiani in questo caso possono dar giudizio meglio che qualunque altro.
1. La lingua italiana, come ho detto altrove, è piuttosto un aggregato di
lingue che una lingua, laddove la francese è unica. Quindi nell’italiana è
forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme straniere,
non già sempre ricevendole identicamente, ma trovando la corrispondente, e
servendo come di colore allo studioso della lingua straniera, per poterla
dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965]comprensione e
immaginazione. E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà è certo
minore che in qualunque altra. 2. Queste considerazioni rispetto alla detta
facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua
latina, o della greca. Perchè alle forme di queste lingue, la nostra si adatta
anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è
maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera
di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e di fatto, ma per vera e
reale somiglianza e affinità di natura e di carattere. Laddove la lingua
francese sebbene nata dalla latina, se n’è allontanata più che qualunque altra
sorella o affine. E il genio della lingua francese è tanto diverso da quello
della latina, quanta differenza mai si possa trovare fra le lingue di popoli
che appartengono ad uno stesso clima, ad una stessa famiglia, ed hanno una
storia comune ec. La somiglianza delle parole, cioè l’essere grandissima parte
delle parole francesi derivata dal latino, non fa nessun caso, essendo una
somiglianza materialissima, e di suono, non di struttura: anzi neppur di suono,
per la somma differenza della pronunzia. Ma in ogni caso il suono e la
struttura sono cose indipendenti, così che ci potrebbero esser due lingue,
tutte le cui parole avessero un’etimologia comune, [966]e nondimeno
esser lingue diversissime.
In
conseguenza se ai francesi pare di ravvisare il gusto, l’andamento, il
carattere di Virgilio nel Delille, e a noi italiani pare tutto l’opposto, io
dico che in ciò siamo più degni di credenza noi, che col mezzo della lingua
propria (solo mezzo di sentire le altre) possiamo meglio di tutti sentire le
qualità della francese e (più ancora) della latina; di quello che i francesi
che col mezzo della loro renitentissima ed unica lingua, non hanno se non
ristretta facoltà di sentire veramente Virgilio e gustarlo in tutto ciò che
spetta alla lingua.
Passo
anche più avanti, e dico esser più difficile ai francesi che a qualunque altra
nazione Europea, non solo il gustare e il sentire, ma anche il formarsi un’idea
precisa e limpida, il familiarizzarsi, e finalmente anche l’imparare le lingue
altrui. Dice ottimamente Giordani (B. Italiana vol.3. p.173.) che Niuna
lingua, nè viva nè morta, si può imparare se non per mezzo d’un’altra lingua già
ben saputa. Questo è certissimo. S’impara la lingua che non sappiamo,
barattando parola per parola e frase per frase con quella che già possediamo. Ora se questa lingua che già possediamo, non si presta se non pochissimo e di
pessima voglia e difficilissimamente a questi baratti, è manifesto che la
difficoltà d’imparare le altre lingue, dovrà essere in proporzione. E siccome
questa lingua già posseduta è [967]l’unico strumento che abbiamo a
formare il concetto della natura forza e valore delle frasi e delle parole
straniere, se lo strumento è insufficiente o scarso, scarso e insufficiente
sarà anche l’effetto.
Ciò è
manifesto 1. dal fatto. La gran difficoltà di certe lingue affatto diverse dal
carattere delle nostrali, consiste in ciò, che cercando nella propria lingua
parole o frasi corrispondenti, non le troviamo, e non trovandole non
intendiamo, o stentiamo a intendere, o certo a concepire con distinzione ed
esattezza la forza e la natura di quelle voci o frasi straniere. 2. da una
ragione anche più intimamente filosofica e psicologica delle accennate. Le
idee, i pensieri per se stessi non si fanno vedere nè conoscere, non si
potrebbero vedere nè conoscere per se stessi. A far ciò non c’è altro mezzo che
i segni di convenzione. Ma se i segni di convenzione son diversi, è lo stesso
che non ci fosse convenzione, e che quelli non fossero segni, e così in una
lingua non conosciuta, le idee e pensieri che esprime non s’intendono. Per
intendere dunque questi segni come vorreste fare? a che cosa riportarli? alle
idee e pensieri vostri immediatamente? come? se non sapete quali idee e quali
pensieri significhino. Bisogna che lo intendiate per mezzo di altri segni,
della cui convenzione siete partecipe, cioè per mezzo di un’altra lingua da voi
conosciuta; e quindi riportiate quei segni sconosciuti, ai segni [968]conosciuti,
i quali sapendo voi bene a quali idee si riportino, venite a riportare i segni
sconosciuti alle idee, e per conseguenza a capirli. Ma se il numero dei segni
da voi conosciuti è limitato, come farete a intendere quei segni sconosciuti
che non avranno gli equivalenti fra i noti a voi? Non vale che quei segni
sconosciuti corrispondano a delle idee, e che voi siate capacissimo di queste
idee. Bisogna che sappiate quali sono e che lo sappiate precisamente, e non lo
potete sapere se non per via di segni noti. Bisogna che se p.e. (e questo è il
principale in questo argomento) quei segni sconosciuti esprimono un accidente,
una gradazione, una menoma differenza, una nuance di qualche idea che
voi già conoscete e tenete, e sapete esprimere con segni noti, voi intendiate
perfettamente, e vi formiate un concetto chiaro e limpido di quella tale
ancorchè menoma gradazione; e se questa non si può esprimere con verun segno a
voi noto, come giungerete al detto effetto? Solamente a forza di conghietture,
o spiegandovisi la cosa a forza di circollocuzioni. Con che non è possibile, o
certo è difficilissimo che voi giungiate a formarvi un’idea chiara, distinta
ec. di quella precisa idea, o mezza idea ec. espressa da quel tal segno. E
perciò dico che i francesi non sono ordinariamente capaci di concepire le
proprietà delle altre lingue, se non in maniera più o meno oscura, ma che [969]sempre
conservi qualche cosa di confuso e di non perfetto. Ciascuna lingua (lasciando
ora le parole, delle quali la francese, sebbene inferiore anche in ciò ad altre
lingue, tuttavia non è povera, e in certi generi è ricca) ha certe forme, certi
modi particolari e propri che per l’una parte sono difficilissimi a trovare
perfetta corrispondenza in altra lingua; per l’altra parte costituiscono il
principal gusto di quell’idioma, sono le sue più native proprietà, i distintivi
più caratteristici del suo genio, le grazie più intime, recondite, e più
sostanziali di quella favella. Nessuna lingua dunque è uno strumento così
perfetto che possa servire bastantemente per concepire con perfezione le
proprietà tutte e ciascuna di ciascun’altra lingua. Ma la cosa va in
proporzione, e quella lingua ch’è più povera d’inversioni (Staël l.c. p.11.
fine) chiusa in giro più angusto (ib.), più monotona, (ib. p.12. principio),
più timida, più scarsa di ardiri, più legata, più serva di se stessa, meno
arrendevole, meno libera, meno varia, più strettamente conforme in ogni parte a
se stessa; questa lingua dico è lo strumento meno atto, meno valido, più
insufficiente, più grossolano, per elevarci alla cognizione delle altre lingue,
e delle loro particolarità.
Che se
ciò vale quanto al perfetto intendere, [970]molto più quanto al perfetto
gustare, che risulta dal senso intero e preciso e completo di qualità tanto più
numerose, e tanto più menome e sfuggevoli, e tanto più proprie ed intime e
arcane e riposte e peculiari di quella tal lingua. Una lingua, che come
confessa un francese (Thomas, il cui luogo ho riportato altrove) se refuse
peut-être (à la grâce), parce quelle ne peut nous donner ni cette
sensibilité tendre et pure qui la fait naître, ni cet instrument facile et
souple qui la peut rendre; una tal lingua dico, che è la francese, come
potrà essere perfetto istrumento per concepire e sentire come conviene, le
grazie ec. delle altre lingue? trattandosi poi, come ho dimostrato, che a
questo effetto, gli uomini non hanno altro istrumento che la loro propria
lingua, come potranno il più de’ francesi, ancorchè dotti e dilicati, sentire
profondamente e perfettamente, e formarsi idea netta di queste tali grazie, e
vestirsi in somma intieramente, com’è necessario, delle altre lingue, e del
genio loro?
Il fatto
conferma queste mie obbiezioni. Ciascun popolo ama di preferenza, e gusta e
sente la propria letteratura meglio di ogni altra. Questo è naturale. Ma ciò
accade sommamente ne’ francesi, i quali generalmente non conoscono in verità
altra letteratura che la loro (dico letteratura, e non scienze, filosofia ec.). [971]Le altre non le conoscono, se non per mezzo di quelle traduzioni,
che essendo fatte come ognun sa, e come comportano i limiti, il genio, la
nessuna adattabilità della loro lingua, trasportano le opere straniere non solo
nella lingua, ma nella letteratura loro, e le fanno parte di letteratura
francese. Così che questa resta sempre l’unica che si conosca in Francia
universalmente, anche dalla universalità degli studiosi. Ed è anche vero
generalmente, che non solo non conoscono, ma noncurano, e disprezzano, o certo
sono inclinatissimi a disprezzare le letterature straniere. Che se non
disprezzano la latina e la greca, viene che non sempre gli uomini sono
conseguenti, viene ch’essi parlano come parla tutto il mondo che esalta quelle
letterature, viene ch’essi stimano quelle letterature come compagne o madri
della loro, e nel mentre che stimano la loro come la più perfetta possibile,
anzi la sola vera e perfetta, non vedono, o non vogliono vedere ch’è
diversissima, e in molte parti contraria a quelle due, le quali non isdegnano
di proporsi per modello e norma, e citare al loro tribunale e confronto ec.
ec.; viene ch’essi credono di gustarle pienamente, e di giudicarne
perfettamente ec.
Ciascuno
straniero è soggetto a cadere in errore giudicando dei pregi o difetti di una lingua
altrui, morta o viva, massime de’ più intimi e reconditi e particolari. E così
giudicando di quei pregi o difetti [972]di un’opera di letteratura
straniera, che appartengono alla lingua, e di tutta quella parte dello stile
(ed è grandissima e rilevantissima parte) che spetta alla lingua, o ci ha
qualche relazione per qualunque verso. Ma i giudizi de’ francesi sopra questi
soggetti, e de’ francesi anche più grandi e acuti e stimabili, sono quasi
sempre falsi: in maniera che per lo più la falsità loro, va in ragione diretta
della temerità ed assurance con cui sono ordinariamente pronunziati;
vale a dire ch’è somma. E ordinariamente i francesi, quando parlano di certe
intimità delle letterature straniere, appartenenti a lingua, fanno un arrosto
di granciporri.
Questo
quanto al gustare. Quanto all’intendere, il fatto non è meno conforme alle mie
osservazioni. Perchè la francese insieme coll’italiana, è senza contrasto, la
nazione meno letterata in materia di lingue, sia lingue antiche classiche, cioè
greca e latina, (nelle quali la Francia non può in nessun modo paragonarsi all’Inghilterra,
Germania, Olanda ec.) sia lingue vive, delle quali la maggior parte dei
francesi si contenta di essere ignorantissima, o di saperne quanto basta per
usurpare il diritto di sparlarne, e giudicarne a sproposito e al rovescio. Nell’Italia
(dove però l’ignoranza non è tanto compagna della temerità) [973]il poco
studio delle lingue morte o vive, nasce dalla misera costituzione del paese, e
dalla generale inerzia che non senza troppo naturali e necessarie cagioni, vi
regna. Ed ella non è più al di sotto in genere, di quello che in ogni altro, o
di studi, o di qualsivoglia disciplina, e professione della vita. Ma nella
Francia le circostanze sono opposte: in luogo che vi regni l’inerzia, vi regna
l’attività e le ragioni di lei; in luogo che vi regni l’ignoranza, vi regnano
tutte le altre maniere di coltura; tutti gli altri studi, e tutte le buone
discipline e professioni fioriscono in Francia da lungo tempo; la sua posizione
geografica, e tutte le altre sue circostanze la pongono in continua e viva ed orale
relazione co’ forestieri, tanto nell’interno della Francia stessa, quanto
fuori. Perchè dunque ella si distingue assolutamente dalle altre nazioni nella
poca e poco generale coltura delle lingue altrui, vive o morte? Fra le altre
cagioni che si potrebbero addurre, io stimo una delle principali quella che ho
detto, cioè la difficoltà che oppone la loro stessa lingua all’intelligenza e
sentimento delle altre, e l’insufficienza dello strumento che hanno per
procacciarsi e la cognizione, e il gusto delle lingue altrui.
[974]Una celebre Dama Irlandese morta
pochi anni fa (Lady Morgan) riferisce come cosa notabile che di tanti emigrati
francesi che soggiornarono sì lungo tempo in Inghilterra, nessuno o quasi
nessuno, quando tornarono in Francia coi Borboni, aveva imparato veramente l’inglese,
nè poteva portar giudizio se non incompleto, inesatto, anzi spesso
stravagantissimo e ridicolo, sopra la lingua e letteratura inglese; sebbene
tutte erano persone ottimamente allevate, e ornate, qual più qual meno, di
buoni studi.
Io non
intendo con ciò di detrarre, anzi di aggiungere alla gloria di quei dottissimi
e sommi letterati francesi che malgrado tutte le dette difficoltà, facendosi
scala da una ad altra lingua, mediante lunghi, assidui, profondi studi delle
altrui lingue e letterature, mediante i viaggi, le conversazioni ec. sono
divenuti così padroni delle lingue e letterature straniere che hanno coltivate,
ne hanno penetrato così bene il gusto ec. quanto mai possa fare uno straniero,
e forse anche talvolta quanto possa fare un nazionale. (Cosa per altro rara,
che, eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore francese, massime
oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità della lingua e
letteratura italiana: e così discorrete delle altre). E non ignoro quanto
debbano massimamente le lingue e letterature orientali ai [975]dotti
francesi di questo e del passato secolo. Ma questi tali dotti presenti o
passati hanno parlato o parlano e più modestamente della lingua e letteratura
loro, e più cautamente e con più riguardo delle altrui, siccome è costume
naturale di chiunque meglio e maturamente ed intimamente conosce ed intende.
Tra i
libri diversi si annunziano le Lettere sull’India di Maria Graham,
autrice di un Giornale del suo soggiorno nell’India, nelle quali campeggia un
curioso paragone del Sanscritto col latino, col persiano, col tedesco, coll’inglese,
col francese e coll’italiano, e si parla pure a lungo delle principali opere
composte in Sanscritto. Bibl. Italiana vol.4. p.358. Novembre 1816. n.11.
Appendice. Parte italiana. rendendo conto del Giornale Enciclopedico di
Napoli n. V.
Il
sistema di Copernico insegnò ai filosofi l’uguaglianza dei globi che compongono
il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura, anzi all’opposto),
nel modo che la ragione e la natura insegnavano agli uomini ed a qualunque
vivente l’uguaglianza naturale degl’individui di una medesima specie.
(22.
Aprile 1821.)
La
scrittura dev’essere scrittura e non algebra; [976]deve rappresentar le
parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i
sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole
così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di
spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che
torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si
vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle
parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la
cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è
questo se non ritornare l’arte dello scrivere all’infanzia? Imparate imparate l’arte
dello stile, quell’arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell’arte
che oggi è nella massima parte perduta, quell’arte che è necessario possedere
in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua
perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla
sospensione, all’attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli
affetti che occorreranno, ve l’obbligherete, dico, con le parole, e non coi
segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe
contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. Che
maraviglia risulta da questa sorta d’imitazioni? Non consiste nella maraviglia
uno de’ principalissimi pregi dell’imitazione, una [977]delle somme
cause del diletto ch’ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore
volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha
sbagliato mestiere? non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che vuol
produrre scrivendo così? Non c’è maraviglia, dove non c’è difficoltà. E che
difficoltà nell’imitare in questo modo? Che difficoltà nell’esprimere il
calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de’ campanelli col tin
tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell’Eleonora. B. Ital. tomo 8.
p.365.) Questa è l’imitazione delle balie, e de’ saltimbanchi, ed è tutt’una
con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni,
sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi.
(22. Aprile.
Giorno di Pasqua 1821.)
Quanto
più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento che l’è
destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua
natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che
imita col marmo s’introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece
delle chiome scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la
quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se
questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978]cosa contraria
alla dignità e alla maraviglia dell’imitazione, e che confonde la imitazione
del poeta o dell’artefice colla misera imitazione delle balie, de’ mimi, de’
ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con
parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza che alcuno si avvisi
di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina.
Oggi
non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o
il debole e misero.
(23.
Aprile. 1821.)
Per l’invenzione
della polvere l’energia che prima avevano gli uomini si trasportò alle
macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicchè ella ha cangiato
essenzialmente il modo di guerreggiare. B. Italiana t.5. p.31. Prospetto
Storico-filosofico ec. del Conte Emanuele Bava di S. Paolo, 2° ed ult.
estratto.
(23.
Aprile 1821.)
Alla
p.975. Una lingua timidissima non è buono nè perfetto strumento a gustare una
lingua coraggiosa ed ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio; nè una
lingua tutta regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare una lingua
naturalmente e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche, orientali
come occidentali), una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè una lingua
che non ha, si può dire, nessuna proprietà quanto ai modi ec. (oêd¡n ti àdion) a gustare le proprietà [979]delle
altre lingue.
Passa
rapidamente sulla ricerca del linguaggio de’ primi abitatori dell’Italia, e
sembra persuaso che la lingua di quelle genti, siccome pure la greca e la
latina, derivassero dall’indiana, giacchè i popoli indiani dalle
spiagge dell’Oriente, passarono in turme alle Occidentali, e posero sede nella
Grecia ed in Italia. Formata, ossia ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè
quella derivata, secondo il Ciampi, dall’indiana), non perciò perirono l’etrusca,
l’osca, la volsca, la latina antica più rozza; ma benchè queste non formassero
la lingua della capitale e del governo, continuarono forse a parlarsi dal
volgo, in quella maniera medesima che il volgo delle diverse provincie d’Italia
è tuttora tenace dei propri dialetti. Infatti alcune voci toscane sono ancora
probabilmente di origine etrusca. Biblioteca Italiana tomo 7. pag.215. rendendo
conto dell’opera del Ciampi intitolata De usu linguae italicae saltem a
saeculo quinto R. S. Acroasis. Accedit etc. Pisis. Prosperi. 1817.
(24.
Aprile 1821.)
Trae
perfino un argomento a suo favore dalla lingua valacca, la quale derivata
dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in
molte parole ed in molte frasi colla italiana, e ne [980]mette fuori di
dubbio la rimota antichità. Bibl. Ital. l. cit. nel pensiero antecedente,
rendendo conto della stessa opera. p.217. fine.
(24.
Aprile 1821.)
La
lingua del Lazio adunque si dovette propagare nel contiguo Illirico e all’Oriente,
non meno che si propagò in amendue le Gallie all’Occidente; e il nome Romania,
che fino a’ nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata dai Valacchi:
ROMANESKI, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore recente ce lo
conferma) (vedi Caronni in Dacia. Milano, 1812. pag.32.) non che il
gran numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono una prova
convincente. Articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di Milano. 1.
Aprile 1818. Quaderno 97. p.245. fine. (25. Aprile 1821.).
Basta
che la voce OCO che significa anch’essa OCCHIO in russo, (cioè oltre la voce
Glass che significa lo stesso) sia tanto simile all’OCULUS de’ latini, onde
dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina, che la parola
OCCHIO in italiano, non essendo OCULUS che il diminutivo della parola OCCUS o
OCCOS che significava un OCCHIO in greco antico, come lo attestano Esichio ed
Isidoro. Luogo citato qui sopra, p.244. principio. Sì dunque la voce russa Oco
derivata dal latino mediante la propagazione [981]della lingua latina
nell’Illirico, avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p.244. verso il mezzo ec.
e Bibl. Italiana vol. 8. p.208. rendendo conto dell’opera dello
stesso Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l’on découvre
entre la langue des Russes et celle des Romains. Milan. 1817. chez Stella, en 4°. gr. dove l’autore
dimostra questa propagazione.) essendo la lingua russa figlia dell’illirica
(ivi); sì ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia oco, aspirando il c
all’uso spagnuolo) dimostrano che quell’antichissima voce occus, benchè sparita
dalle scritture latine, si conservò nel latino volgare. (25. Aprile 1821.).
Occhio però viene da oculus come da somniCULosus, sonnaCCHIoso, e l’antico
sonnoCCHIoso, da auricula, orecchia, da geniculum o genuculum, ginocchio (v.
pag.1181. marg.), da foeniculum, finocchio, da macula, macchia, da apicula o
apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna notare che anche gli spagnuoli
dicono ojo da oculus, come oreja, oveja da auricula, ovicula ec.) da ungula,
unghia ec. V. p.2375. (e la p.2281. e segg.).
Alla
p.740. La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per la
grande ignoranza in cui erano i greci del latino. La quale si fa chiara sì da
altri esempi che ho allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino nel
giudizio timidissimo che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla
Vita di Demostene, della quale vedi il Toup ad Longin. p.134.) sì ancora da
questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci,
colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano parole
latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica notò il
Mingarelli in un’opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto secolo, da
lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine barbaramente scritte
in caratteri latini. (Didym. Alexandr. De Trinitate Lib.1. cap.15. Bonon. typis
Laelii a Vulpe 1769. fol. p.18. gr. et lat. cura Johannis Aloysii Mingarellii.
Vide ib. eius not.3. e la Lettera a Mons. Giovanni Archinto Sopra un’opera
inedita di un antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta
del Calogerà 1763. tomo XI. e ristampata nell’Appendice alla detta opera:
Cap.3. pag.465. fine-466. principio. del che non si troverà [982]così
facilmente altro esempio in altro scrittore greco.) Il che dimostra sì che
gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi del latino, da
che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine, com’elle erano
scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al contrario de’ latini
rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri latini ec. Quanto poi i
greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la conquista della Grecia fatta dai Romani si
può raccogliere da queste parole del Cav. Hager, nel luogo cit. qui dietro
(p.980.) p.245. Basta consultare la celebre opera di S. Agostino, DE
CIVITATE DEI, onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo erano solleciti
d’imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro lingua a’ popoli da loro
sottomessi: Opera data est, ut imperiosa civitas, non solum iugum, verum
etiam linguam suam, domitis gentibus per pacem societatis, imponeret (Lib. XIX,
cap.7.) Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai risposta
che in lingua latina: illud quoque magna perseverantia custodiebant, ne
Graecis unquam nisi latine responsa darent, (Lib. II., c.2. n.2.) e ciò
quantunque la lingua greca fosse tanto famigliare a’ Romani; nulla dimeno per
diffondere la lingua latina obbligavano perfino que’ Greci, che non la
sapevano, a spiegarsi per mezzo di un interprete in latino: Quin etiam...
per interpretem loqui cogebant... quo scilicet latinae vocis honos per omnes
gentes venerabilior diffunderetur. (ibid.) [983]E tuttavia la Grecia
resistè. Ma dopo Costantino, alla Corte Bizantina, segue lo stesso
autore l.c. come si osserva da S. Crisostomo (adv. oppugnatores vitae
monasticae. Lib. III. tom. I., p.34. Paris. 1718, edit Montfaucon.) era un
mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a’ tempi di Giustiniano, le
leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino.
E soggiunge subito in una nota: Le PANDETTE furono pubblicate a
Costantinopoli in latino.
Nelle Mémoires de l’Acad. des Inscriptions,
Tom.24. si trova: Bonamy, Réflexions sur la langue latine vulgaire. (25. Aprile 1821.). E son pur da
vedere in questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711. p.914.
Un nostro
missionario (cioè italiano) il P. Paolino da S. Bartolomeo, mostrò l’affinità
della lingua tedesca con una lingua indiana non solo, ma che da una lunga serie
di secoli ha cessato di essere vernacola, con la samscrdamica (cioè sascrita:
così la nomina anche p.208. samscrdamica) che è la madre di tutte le
lingue delle Indie. Bibliot. Ital. vol.8. p.206.
(25.
Aprile 1821.)
Che il
verbo latino serpo sia lo stesso che il greco §rpv, è cosa evidente, come pure i derivati, serpyllum etc. Ma che gli
antichi latini, e successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in
composizione, lo stesso verbo senza la [984]s, come in greco, lo
raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che
significa appunto lo stesso che il greco Žn¡rpv, composto di §rpv, cioè sursum repo, come anche Žneræzv. (Del verbo Žn¡rpv non ha esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo. Ve n’è però
esempio in Arriano, Expedit. lib.6. c.10. sect.6. e nell’indice è
spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella
nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l’ha evidentissima nel detto
verbo §rpv, dal quale non può esser derivato, se non mediante il
latino, cioè mediante l’uso del volgo romano, differente in questo dagli
scrittori.
(25
Aprile 1821.)
Delle
qualità e pregi della lingua Sascrita, v. alcune cose estratte da un articolo
di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena 1791. 24. Nov. p.365. colonna 1.
Dell’abuso ch’ella fa talvolta de’ composti v. ib. p.363. colonna 2. fine.
Abuso simile a quello che ne facevano talvolta gli antichi scrittori, e massime
poeti, latini, ma assai maggiore, secondo la natura de’ popoli orientali che
sogliono sempre e in ogni genere spingersi fino all’ultimo e intollerabile
eccesso delle cose.
(25.
Aprile 1821.)
La scoperta
e l’uso delle armi da fuoco oltre agli effetti da me notati negli altri
pensieri, ha scemato ancora notabilissimamente il coraggio ne’ soldati, e
generalmente negli uomini. La victoire... s’obtient aujourd’hui
par la regularité et la précision des manoeuvres, souvent sans en venir aux
mains. Nos guerres ne se décident plus guère que de loin, à coups de canon et
de fusil; et nos timides fantassins, sans armes défensives, effrayés par le
bruit et l’effet de [985]nos armes à feu, n’osent plus s’aborder:
les combats à l’armes blanches sont devenus fort rares. Così il Barone
Rogniat, Considérations sur l’Art de la guerre, Paris, de l’imprimerie de
Firmin Didot, 1817. Introduction,
p.1. E come i soldati, così gli altri uomini che si servono delle armi da fuoco
invece delle bianche, riducendosi ora ogni battaglia o pubblica o privata, a
tradimenti, e a fatti di lontano, senza mai venire corpo a corpo: oltre l’influenza
che ha l’educazione militare, e la natura delle guerre sopra l’intero delle
nazioni. Sarà bene ch’io legga tutta intera l’opera citata, dove l’arte della
guerra è chiarissimamente esposta, congiunta a molta filosofia, paragonati
continuamente gli antichi coi moderni, e i diversi popoli fra loro, applicata
alla detta arte la scienza dell’uomo ec. E certo la guerra appartiene al
filosofo, tanto come cagione di sommi e principalissimi avvenimenti, quanto
come connessa con infiniti rami della teoria della società, e dell’uomo e dei
viventi.
(25.
Aprile 1821.)
La
soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia in ordine alla purità della
lingua, ne produce dirittamente la barbarie e licenza, come la eccessiva
servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei popoli. I quali ora perciò
non divengono liberi, perchè [986]non sono eccessivamente servi, e
perchè la tirannia è perfetta, e peggiore che mai fosse, essendo più moderata
che fosse mai.
(25.
Aprile 1821.)
Come non
si dà mai l’atto nè il possesso del diletto, così neanche dell’utilità, giacchè
utile non è se non quello che conduce alla felicità, la quale non è riposta in
altro che nel piacere, con qualunque nome ei venga chiamato.
(25.
Aprile 1821.)
Dal
confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene dell’Inghilterra,
colle poesie orientali, si può dedurre (ironico) quanto sia naturale all’Inghilterra
la sua presente poesia (come quella di Lord Byron) derivata in gran parte
dall’oriente, come dice il riputatissimo giornale dell’Edinburgh Review in
proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore (Londra 1817.) intitolato Romanzo
orientale. (Spettatore di Milano. 1. Giugno 1818. Parte Straniera. Quaderno
101. p.233. e puoi vederlo.)
Infatti
le poesie d’Ossian sebben sublimi e calde, hanno però quella sublimità
malinconica, e quel carattere triste e grave, e nel tempo stesso, semplice e
bello, e quegli spiriti marziali ed eroici, che derivano naturalmente dal clima
settentrionale. Non già quella sublimità eccessiva, quelle esagerazioni, quelle
spaccamontate delle pazze fantasie orientali; nè quel sapore aromatico; nè
quello splendore abbagliante, come dice il citato giornale, nè quel fasto, nè
quella voluttà, nè quei profumi (sono espressioni dello stesso); nè quel colore
vivo e sfacciato, ed ardente; nè quella estrema raffinatezza, e squisitezza
strabocchevole in ogni genere e parte di letteratura e poesia; nè quella
mollezza, quella effeminatezza, quel languore, quella delicatezza (per noi)
eccessiva e nauseosa e vile e sibaritica, che deriva dai climi meridionali. Ed
è veramente maraviglioso, come il paese de’ più settentrionali d’Europa, stimi
naturale e propria e [987]adattata alla sua indole la poesia de’ paesi
più meridionali e ardenti del mondo. Un paese poi come l’Inghilterra, così
pieno di filosofia, e cognizioni dell’uomo, e de’ caratteri nazionali e fisici
ec. ec. Meno male se l’orientalismo fa progressi in Francia, (come negli
scritti di Chateaubriand) paese più meridionale che settentrionale. Ma non c’era
popolo colto, a cui l’orientalismo convenisse meno che all’Inghilterra, dove
però trionfa, e donde io credo che sia passato in Francia sulla fine del secolo
passato, e donde si va diramando per l’Europa la detta scuola. Il fatto sta che
tutto il mondo è paese, e da per tutto si crede naturale e nazionale quello che
fa effetto per la cagione appunto contraria, cioè per la novità, pel forestiero,
pel contrasto col carattere e l’indole propria e nazionale; e come la poesia
[in] Italia ha corso rischio, (e non ne è forse fuori) di una nuova corruzione
mediante il settentrionalismo, l’Ossianismo ec. così viceversa l’inglese,
mediante il meridionale e l’orientale. E certo se la poesia settentrionale
pecca in qualche cosa al gusto nostro, egli è nell’eccesso del sombre, del
buio, del tetro; e la orientale al contrario, nell’eccesso del vivo, del
chiaro, del ridente, del lucido anzi abbarbagliante ec. Vedete quanta
conformità di carattere fra queste due poesie!
(25.
Aprile 1821.)
Il
diletto è sempre il fine, e di tutte le cose, l’utile non è che il mezzo.
Quindi il piacevole, è vicinissimo al fine delle cose umane, o quasi lo stesso
con lui; l’utile che si suole stimar più del piacevole, non ha altro pregio che
d’esser più lontano da esso fine, o di condurlo non immediatamente ma
mediatamente. [988]
I latini
erano veramente dÛglvttoi rispetto alla lingua loro e alla
greca 1. perchè parlavano l’una come l’altra, ma non così i greci generalmente,
anzi ordinariamente: 2. perchè scrivendo citavano del continuo parole e passi
greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano parole o frasi greche nella
stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che vedi p.981. e p.1052.
capoverso 3. e p.2165.
3. Resta
memoria di parecchie traduzioni fatte dal greco in latino anche ne’ buoni
tempi, e fino dagli ottimi scrittori latini, come Cicerone. Ed anche restano di
queste traduzioni, o intere o in frammenti, come quelle di Arato fatte da
Cicerone e da Germanico, quella del Timeo di Cicerone, quelle di Menandro fatte
da Terenzio, quelle fatte da Apuleio o attribuite a lui, quelle dell’Odissea
fatta da Livio Andronico, dell’Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o
Mazzio, da Ninnio Crasso (Fabric. B. Gr. 1.297.) ec. tutte anteriori a
Costantino. V. Andrès Stor. della letteratura, ediz. di Venezia, Vitto. t.9.
p.328 329. cioè Parte 2. lib.4. c.3. principio. Non così nessuna traduzione,
che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo Costantino, e quasi
tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè scientifiche e
appartenenti a quella scienza che allora prevaleva. Non mai letterarie. (V.
Andrès, t.9. p.330. fine.) La traslazione di Eutropio fatta da Peanio che ci
rimane, e l’altra perduta di un Capitone Licio, non pare che si possano
riferire a letteratura, trattandosi di un compendio ristrettissimo di storia,
fatto a solo uso, possiamo dire, elementare. [989]E si può dire con verità
quanto alla letteratura, che la comunicazione che v’ebbe fra la greca e la
romana, non fu mai per nessunissimo conto reciproca, neppur dopo che la
letteratura Romana era già grandissima e nobilissima, anzi superiore assai alla
letteratura greca contemporanea. 4°, I latini scrivevano bene spesso in greco
del loro. Così fa molte volte Cicerone nelle epistole ad Attico (forse anche
nelle altre); dove forse per non essere inteso dal portalettere, la qual gente,
com’egli dice, soleva alleviare la fatica e la noia del viaggio leggendo le
lettere che portava; ovvero per evitare gli altri pericoli di lettere vertenti
sopra negozi pubblici, politici ec. dal contesto latino passa bene spesso a
lunghi squarci scritti in greco, e tramezzati al latino, e scritti anche in
maniera enigmatica e difficile. Restano parecchie lettere greche di Frontone.
Resta l’opera greca di Marcaurelio, il quale imperatore scriveva parimente, com’è
naturale, in latino, e così bene, come si può vedere nelle sue lettere
ultimamente scoperte.
Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco, fu di Preneste, e quindi
cittadino Romano, ed appena si mosse mai d’Italia. Nondimeno dice di lui
Filostrato: „RvmaÝoiw m¢n ·n, ±ttÛkize d¢ Ësper oß ¤n t» mesogeÛ& 'AJhnaÝoi (Fabric. 3.696. not.).
Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p. 2166. Non così i greci sapevano mai
scrivere in latino. Anzi Appiano in Roma scrivendo a Frontone, uomo
latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e Frontone rispondeva
parimente in greco, non in latino. E così molti libri di autori greci si
trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi [990]romani
o latini.
Le
stesse cose appresso a poco si possono notare avvenute a noi riguardo al
francese. Giacchè fino a tanto che la nostra letteratura prevalse o per merito
reale, o per continuazione di fama e di opinione generale, e la nostra lingua
era per tutti i versi più studiata, più conosciuta, più dilatata fra i francesi
ed altrove, e la nostra letteratura parimente, sì nella nazione, che fra’ suoi
letterati e scrittori; e si trovarono di quei francesi che scrivevano in
ambedue le lingue francese e italiana. Ora accade tutto l’opposto: e si trovano
degl’italiani, come anche non pochi d’altre nazioni, che scrivono e stampano
così nella lingua francese, come nella loro: libri, parole, testi francesi si
allegano continuamente in tutti i paesi di Europa: non così viceversa in
Francia, dove difficilmente si troverà un francese che sappia scrivere altra
lingua che la sua, e scrivendo a’ forestieri scriveranno in francese, e
riceveranno risposta nella stessa lingua; e dove è più necessario che in
qualunque altro paese colto, che i passi o parole che si citano di libri
forestieri, (e massime italiani) si citino in francese, o se n’aggiunga la
traduzione.
Osservo
ancor questo. Ridotti in provincie romane i diversi paesi dell’impero, tutti
gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque lingua fosse in esse
originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca, Quintiliano, Marziale, [991]Lucano,
Columella, Prudenzio, Draconzio, Giovenco, ed altri Spagnuoli; Ausonio, Sidonio
Apollinare, S. Prospero, S. Ilario, Latino Pacato, Eumenio, Sulpizio Severo ed
altri Galli; Terenzio, Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano,
Tertulliano, Arnobio, S. Ottato, Mario Vittorino, S. Agostino, S. Cipriano,
Lattanzio ed altri Affricani; Sedulio Scozzese. V. p.1014. Parecchi de’ quali
arrivarono ancora all’eccellenza nella lingua latina. Non così i greci. E dico
tanto i greci Europei, quanto quelli nativi delle colonie greche nell’Asia
Minore, o delle altre parti dell’Asia divenute greche di lingua e di costumi
dopo la conquista di Alessandro, e così dell’Egitto, o di qualunque luogo dove
la lingua greca prevalesse nell’uso quotidiano, ovvero anche solamente come
lingua degli scrittori e della letteratura. Nessuno di questi scrisse in
latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi (come Claudiano, e Igino
Alessandrini, Petronio Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto al numero
ed estensione delle dette provincie greche, massime paragonandoli alla gran
copia degli altri scrittori latini forestieri di ciascuna provincia,
ancorchè minore. E di questi pochissimi nessuno arrivò, non dico all’eccellenza,
ma appena alla mediocrità nella lingua latina. V. p.1029. E Macrobio, che si
stima uno di questi pochissimi, si scusa se ec. (v. il Fabricio, B. Latina t.2.
p.113. l.3. c.12. §.9. nota (a.)) e di lui dice Erasmo (in Ciceroniano) Graeculum
latine balbutire credas. (Fabric. ivi) Cosa applicabilissima agli odierni
francesi per lo più balbettanti nelle altrui lingue, e massime nella nostra. E
di Ammiano Marcellino, altro di questi pochissimi, e più antico di Macrobio,
dice il Salmasio (Praef. de Hellenistica p.39.) ec. V. il Fabricio l.c.
p.99.nota(b) l.3. c.12
[992]Ma del resto i greci di qualunque
parte, ancorchè sudditi romani, ancorchè cittadini romani, ancorchè vissuti
lungo tempo in Roma o in Italia, ancorchè scrivendo precisamente in Italia o in
Roma, e in mezzo ai latini, ancorchè scrivendo ai romani tanto gelosi del predominio
del loro linguaggio, come sì è veduto p.982-983. ancorchè nel tempo dell’assoluta
padronanza, ed intiera estensione del dominio della nazione latina, ancorchè
impiegati in cariche, in onori ec. al servizio de’ Romani, e nella stessa Roma,
ancorchè finalmente nominati con nomi e prenomi latini, scrissero sempre in
greco, e non mai altrimenti che in greco. Così Polibio, familiare, compagno, e
commilitone del minore Scipione; così Dionigi d’Alicarnasso, vissuto 22 anni in
Roma; così Arriano prenominato Flavio (Fabric. B. G. 3.269. not. b.) fatto
cittadino Romano, senatore, Console, caro all’imperatore Adriano, e mandato
prefetto di provincia armata in Cappadocia; così Dione Grisostomo, cognominato
Cocceiano dall’Imperatore Cocceio Nerva, vissuto gran tempo in Roma, e
familiare del detto Imperatore e di Traiano; così l’altro Dione prenominato
Cassio e cognominato parimente Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano
ec. così Flegone, ec.; così Galeno prenominato Claudio ec.; così Erode Attico
prenominato Tiberio Claudio, ec.; così Plotino ec.; (v. per ciascuno di questi
il Fabricio) così quell’Archia poeta ec. (v. Cic. pro Archia).
Da tutto
ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza dalle altre
nazioni, i greci [993]di qualunque paese fossero tenaci della lingua e
letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo il suo
massimo splendore. Considerando ancora che generalmente gli scrittori greci di
qualunque età, e nominatamente i sopraddetti e loro simili, che per le loro
circostanze, parrebbono non solo a portata ma in necessità di aver conosciuto
la letteratura latina, non danno si può dir mai segno veruno di conoscerla, nè
la nominano ec. e se citano talvolta qualche autore latino, li citano e se ne
servono per usi di storia, di notizie, di scienze, di teologia ec. non mai di
letteratura. Questa è cosa universale negli scrittori greci.
In
secondo luogo risulta dalle sopraddette cose, che i mezzi usati dai romani per
far prevalere la loro lingua, come nelle altre nazioni, così in Grecia, e ne’
moltissimi paesi dove il greco era usato, (v. p.982-83.) laddove riuscirono in
tutti gli altri luoghi, non riuscirono e furon vani in questi. Ed osservo che
la lingua latina non prevalse mai alla greca in nessun paese dov’ella fosse
stabilita, sia come lingua parlata, sia come lingua scritta: laddove la greca
avea prevaluto a tutte le altre in questi tali (vastissimi e numerosissimi)
paesi, e in quasi mezzo mondo; e quello che [994]non potè mai la lingua
nè la potenza nè la letteratura latina, lo potè, a quel che pare, in poco
spazio, l’arabo, e le altre lingue o dialetti maomettani, (come il turco ec.) e
così perfettamente, come vediamo anche oggidì. Ma la lingua latina, (eccetto
nella Magna Grecia e in Sicilia) non solo non estirpò, ma non prevalse mai in
nessun modo e in nessun luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura
lingua della diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie
aveva, se non distrutta, certo superata quell’antichissima lingua Celtica così
varia, così dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole, (Annali
1811. n.18. p.386. Notiz. letterar. di Cesena 1792. p.142.) e che al Cav.
Angiolini che se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve
somigliante ne’ suoni alla greca: (Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia, ed
Olanda. vol.2do. Firenze 1790. Allegrini. 8vo anonime, ma
del Cav. Angiolini) (Notizie ec. l.c.) lingua della cui purità erano
depositarii e custodi gelosissimi quei famosi Bardi che avevano e conservarono
per sì lungo tempo, ancor dopo la conquista fatta da’ Romani, tanta influenza
sulla nazione, e massime poi la letteratura: (Annali ec. l.c. p.385.386.
principio.) quella lingua così ricca, e ogni giorno più ricca di tanti poemi,
parte de’ quali anche [995]oggi si ammirano. Questa lingua e letteratura
cedette alla romana; v. p.1012. capoverso 1. la greca non mai; neppur quando
Roma e l’Italia spiantata dalle sue sedi, si trasportò nella stessa Grecia.
Perocchè sebbene allora la lingua greca fu corrotta finalmente di latinismi, ed
altre barbarie, (scolastiche ec.) imbarbarì è vero, ma non si cangiò; e in
ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a parlare
quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci, di quello che la Grecia
vinta e suddita a divenir latina e parlare o scrivere altra lingua che la sua.
Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo, la greca,
sebbene svisata, pur vive ancora in quell’antica e prima sua patria. Tanta è l’influenza
di una letteratura estesissima in ispazio di tempo, e in quantità di cultori e
di monumenti; sebbene ella già fosse cadente a’ tempi romani, e a’ tempi di
Costantino, possiamo dire, spenta. Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non
da altri imparavano a scrivere che da’ loro sommi e numerosissimi scrittori
passati, siccome non da altri a parlare, che dalle loro madri. V. p.996.
capoverso 1. Certo è che la letteratura influisce sommamente sulla lingua. (V.
p.766. segg.) Una lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si
spegne, o si travisa in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser
formata, nè per conseguenza troppo radicata e confermata, siccome immatura e
imperfetta. E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch’ella scarseggiava
sommamente di scritture, sebbene abbondasse di componimenti, che per lo più
passavano solo di bocca in bocca. Non così una lingua abbondante di scritti.
Testimonio ne sia la Sascrita, [996]la quale essendo ricca di scritture
d’ogni genere, e di molto pregio secondo il gusto orientale, e della nazione,
vive ancora (comunque corrotta) dopo lunghissima serie di secoli, in vastissimi
tratti dell’India, malgrado le tante e diversissime vicende di quelle contrade,
in sì lungo spazio di tempo. E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e
grande, e che sommamente contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede
ch’essa letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo
particolare, dovè cedere, giacchè non solamente non potè snidare la lingua e
letteratura greca, da nessun paese ch’ella avesse occupato, ma neanche
introdursi nè essa nè la sua lingua in veruno di questi tanti paesi.
Alla
p.995. Infatti i greci anche nel tempo della barbarie, conservarono sempre la
memoria, l’uso, la cognizione delle loro ricchezze letterarie, e la venerazione
e la stima de’ loro sommi antichi scrittori. E questo a differenza de’ latini,
dove ne’ secoli barbari, non si sapeva più, possiamo dir, nulla, di Virgilio,
di Cicerone ec. L’erudizione e la filologia non si spensero mai nella Grecia,
mente erano ignotissime in Italia; anzi nella Grecia essendo subentrate alle
altre buone e grandi discipline, durarono tanto che la loro letteratura sebbene
spenta già molto innanzi, quanto al fare, non si spense mai quanto alla
memoria, alla cognizione e [997]allo studio, fino alla caduta totale
dell’impero greco. Ciò si vede primieramente da’ loro scrittori de’ bassi
tempi, in molti de’ quali anzi in quasi tutti (mentre in Italia il latino
scritto non era più riconoscibile, e nessuno sognava d’imitare i loro antichi)
la lingua greca, sebbene imbarbarita, conserva però visibilissime le sue
proprie sembianze: ed in parecchi è scritta con bastante purità, e si riconosce
evidentemente in alcuni di loro l’imitazione e lo studio de’ loro classici e
quanto alla lingua e quanto allo stile; sebbene degenerante l’una e l’altro nel
sofistico, il che non toglie la purità quanto alla lingua. Arrivo a dire che in
taluni di loro, e ciò fino agli ultimissimi anni dell’impero greco, si trova
perfino una certa notabile eleganza e di lingua e di stile. In Gemisto è
maravigliosa l’una e l’altra. Tolti alcuni piccoli erroruzzi di lingua (non
tali che sieno manifesti se non ai dottissimi) le sue opere o molte di loro si
possono sicuramente paragonare e mettere con quanto ha di più bello la più
classica letteratura greca e il suo miglior secolo. Oltre a ciò l’erudizione e
la dottrina filologica, e lo studio de’ classici è manifesto negli scrittori
greci più recenti, a differenza de’ latini. Gli antichi classici, e
singolarmente Omero, benchè il più antico di tutti, non lasciarono mai di esser
citati negli scritti greci, finchè la Grecia ebbe chi scrivesse. E vi si
alludeva spessissimo ec. Non domanderò ora qual uomo latino nel terzo secolo si
possa paragonare a un Longino o a un Porfirio. Non chiederò che mi si mostri
nel nono secolo, anzi in tutto lo spazio che corse dopo il 2do
secolo fino al 14mo, un latino, non dico uguale, ma somigliante [998]di
lontano a Fozio, uomo nei pregi della lingua e dello stile non dissimile dagli
antichi, e superiore agli stessi antichi nell’erudizione e nel giudizio e
critica letteraria, doti proprie di tempi più moderni. Tenendomi però a’ tempi
bassissimi, e potendo recare infiniti esempi, mi contenterò degli scritti di
quel Giovanni Tzetze, che fu nel 12mo secolo, e di Teodoro Metochita
che viveva nel 14mo; scritti pieni di indigesta ma immensa
erudizione classica.
Secondariamente
la mia proposizione apparisce da quei greci che vennero in Italia nel trecento,
e dopo la caduta dell’impero greco, nel quattrocento. E mentre in Italia si
risuscitavano gli antichi scrittori latini che giacevano sepolti e dimenticati
da tanto tempo nella loro medesima patria, i greci portavano qua il loro Omero,
il loro Platone e gli altri antichi, non come risorti o disseppelliti fra loro,
ma come sempre vissuti. Della erudizione e dottrina di quei greci, delle cose
che fecero in Italia, delle cognizioni che introdussero, delle opere che
scrissero, parte in greco, ed alcune proprio eleganti; parte in latino,
riducendosi allora finalmente per la prima volta ad usare il linguaggio de’
loro antichi e già distrutti vincitori; essendo cose notissime, non accade se
non accennarle.
(29.
Aprile. 1821.)
[999]Alla p.996. E la letteratura latina
non potè impedire che la sua lingua non si spegnesse, laddove la greca ancor
vive, benchè corrotta, perchè sapendo il greco antico, si arriva anche senza
preciso studio a capire il greco moderno. Non così sapendo il latino, a capir l’italiano
ec. Onde la presente lingua greca non si può distinguere dall’antica, come l’italiano
ec. dal latino, che son lingue precisamente diverse, benchè parenti. E neppure
si capisce l’italiano sapendo il francese, nè ec.
(29.
Aprile. 1821.). V. p.1013. capoverso 1.
In prova di quanto la lingua greca, fosse universale, e giudicata per tale, ancor dopo il pieno stabilimento, e durante la maggiore estensione del dominio romano e de’ romani pel mondo; si potrebbe addurre il Nuovo Testamento, Codice della nuova religione sotto i primi imperatori, scritto tutto in greco, quantunque da scrittori Giudei (così tutti chiamano gli Ebrei di que’ tempi), quantunque l’Evangelio di S. Marco si creda scritto in Roma e ad uso degl’italiani, giacchè è rigettata da tutti i buoni critici l’opinione che quell’Evangelio fosse scritto originariamente in latino; (Fabric. B. G. 3. 131.) quantunque v’abbia un’Epistola di S. Paolo cittadino Romano, diretta a’ Romani, un’altra agli Ebrei; quantunque v’abbiano le Epistole dette Cattoliche, cioè universali, di S. Giacomo, e di S. Giuda Taddeo. Ma senza entrare nelle quistioni intorno alla lingua originale del nuovo testamento, o delle diverse sue parti, osserverò quello che dice il Fabric. B. G. edit. vet. t.3. p.153. lib.4. c.5 §.9 parlando dell’Epistola di S. Paolo a’ Romani: graece scripta est, non latine, etsi Scholiastes Syrus notat scriptam esse ROMANE t}amwr, quo vocabulo Graecam